III.

Il primo periodo romano

Certo già con quel fervore e con quella abilità sperimentata in maniere diverse, ma piú congenialmente nella maniera grandiosa, in un’epoca e in un ambiente che a questo soprattutto guardava (fra una piú genuina spinta del gusto generale che in vari modi reagiva al semplice miniaturismo e all’eleganza razionalistica e sensistica, e una ripresa romana di elementi del «fare grande» già variamente vivi nella prima Arcadia e nella fase frugoniana), il Monti arrivando a Roma nella primavera del ’78 (vi giunse precisamente il 26 maggio) poteva giustamente sperare di imporsi nel vistoso e povero Parnaso romano e sulla scena vasta della capitale cattolica, frequentata da illustri italiani e stranieri, piena di personaggi potenti che potevano offrire al giovane assetato di gloria e di affermazione personale «occasioni» di canti ben piú «degne» di quelle offertegli dalle dame e dai prelati di Ferrara, e protezioni tali da sottrarlo per sempre alle preoccupazioni economiche.

Questo aspetto della sua attività (certo meno ripugnante quando lo si spieghi nella sua educazione da poeta cortigiano chiuso alla nuova concezione del letterato che stava solo allora affermandosi con l’Alfieri[1]) è particolarmente vistoso nei primi tempi del nuovo soggiorno romano, quando il Monti scrive (e spesso nella fretta adatta poesie già composte a Ferrara o addirittura a Faenza) per ottenere la benevolenza di personaggi che lo potessero prendere al loro servigio, o almeno ricompensarlo generosamente. Ed eccolo impegnato in una corte spietata al governatore di Roma, monsignor Spinelli, non solo con sonetti di elogio diretto, ma persino con una canzone petrarchesca Ad amore che finisce, senza nessun legame ragionevole, con una sperticata lode dello Spinelli, e magari utilizzando una lettera con cui veniva dedicata al Metastasio una cantata scenica (la Giunone placata, per le nozze di un principe Caetani: quanti obbiettivi còlti contemporaneamente!) e nella quale si invitava il vecchio, piú che ottantenne, poeta cesareo a lasciare Vienna, a fare un viaggio a Roma, soprattutto per vedere quanto la città fosse divenuta bella sotto il governatorato di monsignor Spinelli[2].

Ma la sua vita non si riduceva certo a questi maneggi pratici e, anche mentre frequentava i salotti romani[3] (quello della Boccapadule o quello della Pizzelli Cuccovilla, i due piú celebri salotti del periodo dell’ultimo Settecento romano) per procurarsi amicizie fruttuose, la sua attenzione si apriva a tutto ciò che nella società letteraria romana vi era di interessante, specie dal punto di vista dell’erudizione, dell’archeologia, della cultura figurativa (Roma era stato il centro dell’attività di Winckelmann, ed era tuttora il centro del neoclassicismo internazionale). Ché poi l’ambiente romano era per ovvie ragioni assai chiuso e provinciale, quanto a circolazione di idee filosofiche e politiche, e rari erano gli uomini aperti alle idee avanzate della cultura illuministica, come quel principe Chigi da cui il Monti poté forse essere avviato ai suoi primi contatti massonici, ma che dopo qualche anno fu costretto ad abbandonare Roma piú per le sue idee che per uno scandalo privato che di quella espulsione fu il pretesto.

E se nel suo desiderio di gloria entrava fortemente il desiderio di servirsi della gloria letteraria per ottenere una sistemazione sicura (sicché la pubblicazione del Saggio di poesie del ’79 fu concepita anche «per aprirsi una strada»), indubbiamente c’era nel giovane Monti un sincero fervore letterario, una generosa ansia di lavoro serio, di assidua preparazione sui classici, di elaborazione sempre piú sicura dei suoi mezzi stilistici (anche se si può appunto notare che in lui prevalgono l’urgenza di una preparazione tecnica piú che il tormento di interessi estetico-spirituali, di motivi personali). Per questo impegno serio nella letteratura, il Monti sacrifica il riposo della notte (e magari riduce la cena a qualche fetta di pane inzuppato nell’acqua!, come narra al fratello in una lettera del ’78[4]), e quando gli si presenta l’occasione di andare fuori d’Italia, come segretario ben retribuito di un cardinale legato, rifiuta per non abbandonare gli studi classici («Non cederei il piacere della compagnia dei morti e della contemplazione della mente per cento zecchini al giorno»[5]).

Fu assai facile al Monti battere rapidamente i principali rappresentanti dell’Arcadia romana (ormai residuo sterile dell’Accademia che tanto aveva significato nella cultura del primo Settecento, anche se accettavano ancora la investitura pastorale uomini come Alfieri e Goethe), i frugoniani abati Golt e Godard, con le sue sonanti, ispirate declamazioni[6] dei propri versi ferraresi (specie le Visioni) al Bosco Parrasio, alla Accademia del disegno, nei salotti.

Ma ben presto, assicurandosi, malgrado le congiure e gli epigrammi satirici dei poveri rivali romani (Golt e Godard erano già su di un piano piú dignitoso di fronte ai vari Berardi e Galfo, miserrimi verseggiatori che si vedevano annullati dallo splendore eloquente del Monti), un primato indiscusso in Roma, il Monti volle imporsi all’attenzione dei letterati italiani pubblicando una raccolta delle sue poesie (uscí nel 1779 a Livorno perché la censura romana trovava un po’ azzardate alcune delle poesie galanti) col titolo Saggio di poesie: titolo ben corrispondente alla sua posizione dichiarata di «nuovo» poeta che presenta un saggio delle sue diverse poesie, dei diversi «generi» sperimentati e della bravura e delle doti particolari in quelli dimostrate, nonché del «suo» genere preferito e congeniale.

Le varie sezioni del volume sono introdotte da lettere dedicatorie aventi lo scopo di procacciarsi protezioni di personaggi influenti e la benevolenza di letterati illustri e specialisti dei vari «generi», ma fondamentale per la precisazione della situazione letteraria del Monti in quegli anni è il Discorso preliminare a Ennio Quirino Visconti, il famoso archeologo e grecista romano, cultore e fautore del gusto neoclassico.

In questo Discorso si riflettono esigenze chiarite anche piú direttamente in lettere dello stesso anno a Clementino Vannetti, il consigliere e confidente del Monti di questo periodo; si veda, ad esempio, la lettera del 26 gennaio[7] in cui il Monti afferma di continuare «a secondare il suo genio» recitando in Arcadia «componimenti di ogni stile e d’ogni genere», e di mirare soprattutto «ad assodarsi l’immaginazione»; o la lettera del 7 agosto[8] in cui, mentre proclama orgogliosamente di «non essere nel mio stile imitator schiavo di nessuno» e di aver procurato di farsi «un impasto che sia tutto di mia giurisdizione», si compiace particolarmente di avere evitato la monotonia con il «variare stile e colore al variar del soggetto» e di avere nella sua cetra piú di una corda, al contrario di quanto avviene agli altri poeti in un tempo che egli reputa poeticamente povero o corrotto da un frugonianesimo eccessivo e persino da ritorni di concettismo barocco.

Il Discorso esprime (se pure in maniera piú spavalda che sicura, e ben diversamente da quella profonda proposta di una poetica personale che si può trovare, ad esempio, nel Commento alla Chioma di Berenice del Foscolo[9], venticinquenne come l’autore del Discorso – ma anche il tempo, l’età sono alla fine una misura personale – ) un duplice atteggiamento del Monti in questo momento di ripensamento sulla sua attività, sulle sue qualità e sui suoi programmi. Da una parte egli vuole affermare una sua scelta, una sua tendenza o scuola poetica, dall’altra vuol mostrare la sua apertura ad ogni forma di bella poesia e conseguentemente la sua disponibilità originalmente eclettica. A parte il fatto che in questo Discorso egli vuol mostrare anche la vasta ampiezza delle sue conoscenze, delle sue letture di poeti di ogni tempo e di ogni nazione, con tale abbondanza (e a volte con cosí scarsa incisività di definizione) che rivela anche quanto di orecchiato, di appena scorso doveva esserci nel caso di molti degli autori citati.

La scelta e le indicazioni delle preferenze del Monti vanno naturalmente alla poesia energica e grandiosa i cui stessi difetti sono per lui segno di robustezza e di grandezza, come quelli dei poeti delicati e gentili sono invece riprova della loro sostanziale povertà: «Chiabrera, Guidi, Frugoni [si badi bene agli esempi settecenteschi cosí significativi per la stessa formazione del Monti] peccavano di soverchio entusiasmo: sono caricati qualche volta e giganteschi. Segno che la lor fantasia era grande e robusta: i loro difetti stessi ne formano l’elogio. Una immaginazione delicata e gentile diverrà viziosa per troppa sottigliezza e raffinamento: all’incontro una immaginazione calda e profonda eccederà nella grandezza e nel disordine delle idee. Somiglio la prima ad un piccolo rivolo che mormora languidamente, ed ha il margine sí gremito di fiori, che non dà varco ad accostarvisi senza calpestarne ed opprimerne molti coi piedi. Somiglio la seconda ad un fiume reale, che torbide sí qualche volta ma sonanti e maestose porta al mare le sue onde, e regge sul dorso le navi, laddove quel ruscelletto appena tragge seco le povere foglie che i fanciulli vi gittano per giuoco. Zappi, Rolli e cento francesi sono del primo carattere. Dante, Ariosto, Milton sono del secondo. Io non disprezzo le delicate fantasie smorfiose; ma io vorrei essere Omero piuttosto che Anacreonte, e rinuncerei di buon grado a cento leggiadre cose di questo per aver dieci sole bellezze di quello benché da molti difetti accompagnate»[10].

Ma questa netta preferenza per il «fare grande» e il disprezzo per la poesia miniaturistica degli anacreontici italiani e francesi (nell’apparente distinzione di due tipi di poesia, chiaro è il contrasto in funzione di una scelta), per cui – segno chiaro di un mutamento del gusto di fine Settecento[11] – si preferisce (e sembra un’audacia estrema) Omero (con i suoi difetti!) ad Anacreonte (l’idolo del primo Settecento che vedeva in quel poeta il culmine del suo ideale di eleganza e brio; «galant et poli», come lo diceva la Dacier), non conducono subito il Monti ad una risoluta individuazione di poeti-guida, di poeti-modello (né ad una immediata precisazione dei suoi ideali programmatici). Perché, pur riconoscendo in altre due dedicatorie del libro (quella alla Bevilacqua e quella allo stesso Minzoni) i suoi debiti e la sua alta ammirazione per i suoi maestri ferraresi, il Minzoni, paragonato a Michelangelo e all’Ariosto[12], e il Varano, il grande Odinto alla lettura delle cui Visioni si accese il «grande entusiasmo» animatore dei versi montiani[13], il Monti si preoccupa, nel giuoco complesso anche se un po’ goffo di questo Discorso – che vuol mostrare tutta la sua cultura letteraria, vasta e moderna, classica e ben “aggiornata”, la sua disponibilità eclettica pur con una preferenza polemica – di non chiudersi in un’unica direzione, di non limitare le possibilità della sua sensibilità. E cosí, in pagine spavalde e un po’ esibizionistiche (con chiare riprese di indicazioni e giudizi, per quel che riguarda la letteratura tedesca, dal libro del Bertola, Idea della poesia alemanna, pubblicato pochi mesi prima, e con errori assai significativi a dimostrare il carattere approssimativo e di seconda mano di parte di quelle letture), egli sembra cancellare la piú recisa scelta prima avviata affermando che egli non è «devoto piú per un poeta che per un altro», che egli legge «con trasporto tutti i buoni maestri; e le bellezze di questo non mi impediscono di sentire e di ammirare le bellezze di quello. Petrarca mi tocca l’anima, Frugoni mi sorprende, Klopstock mi trasporta con violenza nel suo sentimento e mi mette in iscompiglio la fantasia, Gessner, Lessing, Kleist m’innamorano colla loro semplicità e mi rendono voglioso di farmi pastore»[14] e cosí via, concludendo che «o italiana o transalpina o cinese o araba che ella sia, fosse pur anche groenlandica, la poesia mi piace tutta, purché la trovi buona». Avidità di poesia (e caratterizzata da una nozione di poesia poco esigente – reazione al predominio di criteri di purezza ed eleganza per un desiderio confuso di efficacia e di impeto – : «né io getto al foco un libro che abbondante sia di difetti, quando non manca di bellezze che li compensano») che vuol preparare il lettore alla montiana varietà di generi e stili offerta dal libro[15] e che pur non toglie un successivo ritorno alla scelta di una preferenza e addirittura di un modello esemplare, anche se mediato, non senza abilità, con la scherzosa ammissione di una volubilità, come nuova indicazione di ricchezza e di spregiudicatezza di uomo superiore alla pedantesca fedeltà dei petrarchisti o dei frugoniani o di appartenenti ad altre «sette forestiere»[16]. E il modello è David, la «bandiera del suo partito» è la poesia degli Ebrei, una poesia cioè ancor piú grandiosa e maestosa di quella di Omero (e di Virgilio e di Pindaro) e appunto nel lungo e immaginoso confronto (in cui singole immagini-parafrasi di scene bibliche stanno fra le Visioni ferraresi e certo impeto piú sicuro ed evidente della Bellezza dell’universo, sicché in questa parte il Discorso offre in prosa chiara esercizi e prove di uno sviluppo montiano nella direzione dell’immaginazione grandiosa, dell’affresco scenografico[17]) fra lo spirito di Omero e di David (fatto «confrontando tra loro alcune immagini dell’uno e dell’altro») si risolve la parte piú appassionata del Discorso, che rivela piú chiaramente la tendenza piú forte nel giovane Monti. Eclettismo, disponibilità a vari «generi» di poesia, effettive disposizioni irraggiate piú che unificate entro un nucleo sicuro; ma certo il suo gusto tendeva soprattutto alle «immagini ricche e maestose», alle scene “sublimi” anche se poco ordinate ed eleganti come in quei moderni prosecutori dell’«entusiasmo» davidico, Milton e Klopstock, che il Monti difende (furono certo testi efficaci su di lui e concorrenti sulla linea d’influenza, Bibbia, Frugoni, Minzoni e Varano con l’utilizzazione crescente di Dante) contro le condanne del «buon gusto» italiano[18], di fronte al quale egli pare assumere un atteggiamento di spregiudicatezza sempre maggiore in questa ultima parte del Discorso.

Vero è che poi in altre dedicatorie del libro egli preparava cautamente una difesa contro possibili accuse di simpatie per l’aborrito barocco e per le sue iperboli, contro cui l’Arcadia e tutto il Settecento avevano combattuto, e perciò – a distinguersi da ricadute nel cattivo gusto secentesco – si scaglia violentemente (nella dedica al Minzoni) contro quei poeti che «rifriggono i bisticci dell’Adone per gettar polvere negli occhi degl’ignoranti, che appiccano le penne di pavone alla coda di un passero», «che vanno sempre in caccia della metafora, che idolatri di uno stile costantemente figurato, disprezzano i semplici e parlanti colori della natura»[19] e vede (con una curiosa esagerazione, legata in parte alle sue polemiche con alcuni poetucoli romani come il Galfo e il Berardi, e in parte per una chiara volontà di separare nettamente il nuovo «grandioso» di origine biblica da quello falso dell’«imbellettato Seicento») addirittura la poesia italiana «incamminarsi a gran passi» verso il barocco e «le lucciole del Marino», come dice nella dedica al Vannetti[20]. E d’altra parte, pur elogiando il Frugoni, si preoccupa (spia questa anche di un declino ormai della fama di quel poeta) di non comparire come un frugoniano[21], accusando i suoi rivali Golt e Godard di persistere nel vecchio «lusso frugoniano».

Comunque è ben chiaro come il Monti, pur nella difesa della sua vasta disponibilità di gusto e di produzione e nella energica distinzione del suo grandioso dai pericoli del barocco e del puro frugonianesimo, presentasse la sua maggior novità nella preferenza per la poesia grande e maestosa, ricca di immagini elevate ed energiche, disprezzando le forme troppo tenui e piane, la leggiadria elegante piú amata dall’Arcadia e dal classicismo rococò.

E infatti, mentre nella dedica della sezione delle canzonette galanti del Saggio, al Ferry (un curioso italiano francesizzato – era Giovanni Ferri di Fano –, libertino e letterato da salotto), egli ammette delicatezza, eleganza e semplicità richieste dal «genere» erotico, invece di grandezza, magnificenza ed energia necessarie nella lirica alta, aggiunge però un tratto caratteristico alla sua definizione: al posto dell’elevazione ci sarà la “smorfia”, e in tal modo egli indica anche nella stessa direzione galante e canzonettistica un suo impasto di dolcezza e delicatezza, ma anche di una certa energia di brio caricato verso il comico, di maggior colorito di ritmo e di immagini[22]. Come si può riscontrare sulla via già accennata delle prime odicine e canzonette giovanili, in alcuni componimenti dei primi anni romani, come A Fille (Il Consiglio), in cui il Monti dà indubbiamente una sua versione del gusto erotico settecentesco in direzione piú spavalda e comica, con forme piú libere e rilevate, meno sottilmente eleganti, con mosse ammiccanti, con interruzioni e riprese piú movimentate, con un linguaggio spesso un po’ meno preciso e nitido, ma piú efficace e capace di tradurre movimenti narrativi[23]. Mentre il gusto immaginoso, grandioso e colorito si esprime anche nelle stesse poesie galanti, magari in paragoni che finiscono per esorbitare dalla loro funzione piú solita in quel tipo di poesia, denunciando quella che è una spinta piú istintiva e centrale del gusto montiano[24] e che ben si manifesta, come allontanamento dalle forme settecentesche piú esemplari, anche in quella cantata melodrammatica del ’79, Giunone placata, in cui il modello metastasiano è risentito con un tipico spostamento verso una musicalità piú sonora e piena, verso linee melodiche piú floride e meno pure, verso immagini piú mosse nella gaiezza e nel sorriso[25].

Questa tendenza piú forte è ben presente anche in quella ode-canzonetta La prosopopea di Pericle, scritta nell’estate del 1779 (fu declamata il 20 agosto in Arcadia), in cui il Monti tentava un accostamento della propria poesia al gusto neoclassico con un risultato che particolarmente giustifica la formula del Momigliano circa l’«ibrido» neoclassicismo del Monti.

Come ho detto piú volte, il Monti proveniva da una formazione diversa da quella neoclassica e nelle stesse dediche e nel Discorso del Saggio del ’79 colpisce sia l’assenza di ogni citazione del Parini, l’artista del classicismo illuministico ormai avviato sempre piú decisamente ad uno sviluppo nettamente neoclassico, sia la stessa caratterizzazione di Omero non nel senso neoclassico della «greca felicità», della limpida poesia greca, ma in quella semmai preromantica del poeta grandioso da avvicinare alla superiore poesia della Bibbia.

Perciò, quando con la Prosopopea egli volle decisamente affrontare un tema neoclassico (e un tema particolarmente adatto all’ambiente romano archeologico: la riscoperta nella campagna di Tivoli di un busto greco di Pericle), non poté non sentirlo e svolgerlo nei modi tipici della sua formazione letteraria, del suo gusto prevalente, pur piú contenuti, frenati dall’adesione a fondamentali canoni del gusto neoclassico. Doveva nascerne un compromesso e del resto si può anche dire che lo stesso ambiente letterario romano, saturo di neoclassicismo archeologico e figurativo (fra i dotti come il Visconti, gli scolari italiani e tedeschi del Winckelmann e di Mengs, Thorvaldsen, la Kauffmann, ecc.), era però assai lontano dal gusto neoclassico piú puro e ispirato alla ricerca della «nobile calma e tranquilla grandezza» (la celebre formula di Winckelmann) tanto piú viva nella «scuola lombarda», nel neoclassicismo settentrionale, e risentiva fortemente – nella generale mediocrità dei suoi rappresentanti – del forte frugonianesimo che lo stesso Monti considerava eccessivo e pedantesco, di un certo manierismo eclettico che in qualche modo confortava la tendenza giovanile del Monti piú alla grandiosità efficace e vistosa che alla pura eleganza, piú al colore che al disegno. E la conquista da parte del Monti di uno stile neoclassico piú fine e puro, la assimilazione personale dei principî neoclassici piú centrali (e anche allora sempre in una versione piuttosto particolare) avverranno molto tardi, dopo una lunga serie di avvicinamenti, di deviazioni, di compromessi.

Sicché ci volle tutta la buona volontà del Carducci, nei suoi entusiasmi per il classicista Monti, per definire la Prosopopea poesia «mirabile di parchezza virile», là dove essa è interessante, dal punto di vista letterario, proprio come un prodotto di efficace compromesso fra una volontà di adesione al neoclassicismo e un gusto istintivamente piú florido, colorito, immaginoso di quello neoclassico teso al lineare, al conciso, al disegnato (e spesso persino a scialbi toni gessosi e a suoni monotoni per eccesso di purezza, di serenità, di nobile semplicità).

Tutto vi è sostanzialmente sonante (a cominciare dal titolo), disposto alla declamazione (si pensi all’inizio e alla ripetizione dell’«io» in quel piglio eloquente ed efficace, appoggiato a forme piene, sonore e coerenti a una ricerca di effetto: «splendore e meraviglia»[26]), anche se l’abbondanza è qui piú contenuta e sorretta entro un ritmo (la strofa chiusa del Savioli ripresa – e parve una novità fra le molte che colpirono gli ascoltatori di questa poesia[27] – per adattarvi un contenuto alto e solenne, al posto di quello erotico del modello) che importava una certa cadenza rapida, e regolare, un certo limite all’espansione che le immagini avevano nella serie aperta e legata delle terzine delle Visioni, e – piú di quanto avvenisse nelle poesie galanti precedenti dove lo scherzo e il brio agevolavano una maniera piú spregiudicata e libera – impegnava il Monti in una ricerca di linguaggio piú conciso ed eletto in direzione classicheggiante.

Del resto anche la genesi occasionale di questo componimento, se non limita l’interesse della sua particolare natura dal punto di vista di una ricostruzione dello sviluppo della poetica montiana (c’è indubbiamente un volontario tentativo di avvicinamento al gusto neoclassico, anche se spiegato dalla natura del soggetto trattato), può servire anche a meglio spiegare le particolari condizioni di una poesia in cui lo stesso soggetto trattato è in realtà orientato, piú che ad una semplice esaltazione della civiltà greca nella sua perfezione umana e artistica (con quel tono di rimpianto per una perfetta età perduta che spesso vena romanticamente molti componimenti neoclassici e che qui è invece del tutto assente), ad un paragone di quell’età con quella di Pio VI che la rinnova e la supera. Sicché il puro elogio della bellezza antica, l’entusiasmo per un’età lontana di assoluta perfezione non diviene in realtà centro animatore del componimento, né, tanto meno, nasce da una profonda meditazione lirica.

Il componimento è costruito invece su di un generico entusiasmo encomiastico entro cui rientra (con il fascino del tema neoclassico-archeologico cosí vivo in Roma) l’entusiasmo per il quadro dell’età di Pericle, con tutte le sue possibilità di scene e di pezzi di bravura descrittivi-evocativi, secondo il gusto montiano del «vedere» e «far vedere» in modo rilevato, pieno e colorito (si notino, ad esempio, le strofe 13-16 che alla insegna del «vedi» rappresentano il riaffiorare di statue di antichi personaggi greci e che arieggiano in forma compendiosa certi tipici movimenti di quadri di bravura nella descrizione-visione della nascita degli animali nella Bellezza dell’universo). E fortissimo si accompagna all’entusiasmo del «vedere» e «far vedere» proprio il compiacimento stesso della propria prestigiosa abilità che par ben confondersi in un solo ritmo di trionfo e di sorriso, di baldanza e di lieta meraviglia, piú efficace che veramente poetico.

In complesso ne risulta un ritmo animato e sostenuto (ma con qualcosa di pedantesco e come di saccente e scolastico insieme, in questa classicità un po’ di accatto) nel cui svolgersi la bravura del giovane Monti si arricchisce di maggiori possibilità di immagini meglio delineate e piú plastiche, di linguaggio piú sensibile e cesellato, pur nei limiti tipici delle sue tendenze e non senza qualche sciatteria e approssimatività, corrispettivo però anche di certi ardimenti piú realistici e piú moderni che tanto interesseranno poi i romantici.

Cosí indubbiamente notevoli per una nuova capacità (l’incontro col neoclassicismo portava dunque alcuni frutti, malgrado la difficoltà d’assimilazione profonda e la tendenza a soluzioni ibride[28], di immagine piú conclusa e sensibilmente plastica, di linguaggio piú attento, eletto, misurato e sottilmente evidente) sono certe strofe specie nella rappresentazione delle arti in Atene:

Per me nitenti e morbidi

sotto la man de’ fabri

volto e vigor prendevano

i massi informi e scabri:

ubbidïente e docile

il bronzo ricevea

i capei crespi e tremoli

di qualche ninfa o dea.

Ma ecco nella stessa sequenza di strofe, seppure piú contenuta e con una sua rapida e coerente efficacia (su di una via di brevità che nell’Ode al Signor di Montgolfier e poi in quella per la battaglia di Marengo porterà a risultati cosí persuasivi sulla spinta di un entusiasmo piú genuino ed intimo), la piú istintiva tendenza al grandioso, al gesto spettacolare e scenografico, si ripresenta

(Al cenno mio le parie

montagne i fianchi apriro,

e dalle rotte viscere

le gran colonne usciro)

proprio al culmine del quadro, come soluzione piú chiaramente sentita dallo scrittore come sua e di sicuro effetto. Cosí come a volte la concisione e l’eleganza (mèta ardua e poco congeniale per il giovane Monti) cedono a forme approssimative e sciatte: non molte nella redazione definitiva (che è del 1783, per l’edizione senese dei Versi), ma veramente molte in quella originaria del 1779 che tanto piú mostra le iniziali difficoltà del Monti in questa sua prova di poesia neoclassica[29].

Del resto l’esperimento neoclassico della Prosopopea, per quanto coronato dal plauso dei letterati romani ed effettivamente notevole per una forza di generale piglio ed evidenza, per una sua linea costruttiva certo piú chiara e robusta rispetto a tutta la produzione precedente del Monti, non fu proseguito se non vari anni dopo, ed anzi (pur non volendo dare allo svolgimento dell’attività montiana, specie in queste prime fasi, un carattere interno e una consapevolezza profonda che esso non ebbe) il giovane poeta si volse piuttosto di nuovo ad un arricchimento della sua cultura poetica in direzione “sublime”, sulla linea Milton-Klopstock, e, quando nell’estate dell’81 – dopo un periodo di scarsissima produzione di versi – ritornò alla poesia, ciò avvenne con la Bellezza dell’universo, che è ben lontana dalle forme (se non da certi temi) della poetica neoclassica e che libera pienamente – se pur con l’acquisto di una maggior sicurezza ed evidenza espressiva – l’esuberanza immaginosa piú contenuta e qualche volta sacrificata nelle misure piú rigide della Prosopopea.

A questa libertà piú sicura lo conduceva anche la stessa rinnovata e precisata conoscenza degli autori stranieri, citati in qualche caso un po’ a casaccio nel Discorso del ’79 ed ora letti piú attentamente e divenuti oggetto principale di una lunga discussione epistolare con Clementino Vannetti, un letterato roveretano, anticipatore del purismo (il Cesari ne fu l’ideale continuatore e perfezionatore) e ostinato, gretto difensore della tradizione latino-italiana, ammiratore entusiasta di Orazio (che diceva «stringato e conciso, ma anche piano ed aperto»: il non plus ultra del suo ideale formale) e avversario altrettanto feroce della moda preromantica, della «corruzione» portata in Italia dai testi preromantici stranieri.

Il Monti, che, fra il ’78 e il ’79, aveva accettato una specie di amichevole tutela letteraria da parte del Vannetti (utile a lui anche per le sue conoscenze di letterati autorevoli e quindi come suo introduttore nella piú vasta società letteraria italiana), apprezzandone, almeno a parole, i consigli, specie per quanto riguardava il buon uso dei classici latini e la purezza della lingua, ora tendeva a discutere e a reagire ai giudizi dell’amico che sempre piú sentiva troppo limitato e conservatore, mentre egli, come già si è visto nel Discorso, smaniava di apparire un novatore, di dominare con la versatilità e l’originalità spregiudicata del suo ingegno poetico la scena letteraria italiana (e cosí, scrivendo il 5 novembre del ’79 al Bertola, cui doveva l’introduzione alla conoscenza della letteratura tedesca, espone la sua scontentezza sull’attuale poesia italiana, il suo desiderio di rinnovarla, concludendo però con una curiosa proposta di «congiura» fra lui e il suo corrispondente per riscattare la «avvilita» poesia in Italia[30]).

E mentre in un primo tempo ammetteva, secondo i consigli del Vannetti, nemico non solo del «sentimentalismo» nordico, ma anche del «filosofismo» di origine francese, l’esclusione di ogni lettura filosofica come estranea ai suoi interessi di poeta in formazione[31], ora insieme sostiene – con crescente insofferenza e con un compiacimento piuttosto ingenuo della sua posizione libera, di «ribelle di Parnaso» – la utilità di un arricchimento filosofico e scientifico della sua immaginazione[32] (non era tanto o solo un effetto di letture illuministiche, quanto di quella stanca «Arcadia della scienza» che aveva anche in Roma qualche prosecuzione), la necessità di aprire il proprio gusto alla comprensione della poesia «settentrionale» (soprattutto Milton e Klopstock, la cui Messiade egli da tempo voleva tradurre in versi italiani senza però studiare il tedesco!, lingua «aquilonare» la cui orrenda pronuncia gli avrebbe guastato l’orecchio e fugato i pensieri poetici[33]), di quella piú solenne, grandiosa «sublime e metafisica», che egli legava alla poesia «orientale», profetica della Bibbia, a Dante e alla propria fortunata esperienza delle Visioni, da cui (proprio partendo dalla critica delle Visioni, pubblicate nel Saggio del ’79) il Vannetti voleva allontanarlo in nome del buon senso e della chiarezza e del buon gusto poetico e linguistico latino-italiano.

La difesa montiana degli «oltremontani e, ripeto, proprio degli autori dell’entusiasmo sublime», oltre che del «patetico» (posto un po’ in sottordine), si fa sempre piú decisa (si veda ad esempio la lettera del 3 giugno 1780[34]) e si precisa in una difesa, acre e un po’ sprezzante, della poesia elevata e «ingegnosa» difesa e sviluppata in appositi scritti inviati al Vannetti[35].

Certo la parola “ingegno” non deve far pensare ad un esplicito ritorno barocco, ché il Monti stesso vuol chiarirne le differenze, ed è piuttosto coerente alla tendenza montiana verso una poesia rilevata, immaginosa ed efficace (con un evidente margine di scambio fra poesia ed eloquenza), qual è sostanzialmente quella che il Monti spiegò con un’opulenta ricchezza nel canto La bellezza dell’universo, di cui il Vannetti rimase naturalmente scontento per l’eccesso di immagini che egli chiamava «settentrionali», mentre il suo corrispondente[36] le affermava «italiane», «perché cavate dagli oggetti della natura, la quale parla istessamente agli occhi di Londra e di Parigi che a quelli di Roma», e chiudeva la lunga discussione con la costatazione della inconciliabilità di due gusti ormai troppo diversi.

Egli era ormai sicuro di sé e della sua “nuova” poesia (o che tale a lui e a molti suoi contemporanei appariva) sviluppatasi soprattutto sulla linea delle Visioni e divenuta cosí smagliante, sontuosa e pur piú evidente e costruita nella prima vera prova alta dell’immaginazione montiana, appunto la Bellezza dell’universo, in cui (senza giungere alla valutazione di vera e grande poesia incentrata in un potente sentimento poetico della creazione e della armonia cosmica, secondo il giudizio eccessivo del Flora) indubbiamente meglio si realizzano certe naturali disposizioni poetiche e oratorie del Monti: come appunto l’entusiasmo del «vedere» e «far vedere» scene grandiose e in movimento e la meraviglia e l’efficacia che ne derivano, con una particolare innegabile propensione agli spettacoli celesti e della natura nei suoi aspetti «sublimi», sereni o terribili secondo un gusto di chiaroscuro e di alternanza dell’energico e del delicato (come diceva il Foscolo), anche se – in questa fase – sempre su di un piano di grandiosità, e in toni di colore fortemente trapassanti dal tenebroso al luminoso, e di sentimenti dal pauroso all’estatico.

Evidentemente questa posizione dell’entusiasmo (che corrisponde a certi aspetti tipici della poetica dell’ultimo Settecento fra preromanticismo e neoclassicismo pindarico) comporta un elemento oratorio, una tensione all’efficacia e al «far entusiasmare» i lettori, a trasfondere in loro (sempre con l’integrazione ideale, ma largamente attuata dal Monti, specie in questo periodo, quando ogni suo componimento nuovo veniva reso pubblico attraverso una declamazione prima che nella stampa) l’entusiasmo del poeta, a far vedere ciò ch’egli vede, a suscitare la loro meraviglia, piú che ad una pura trasfigurazione lirica, ad un intimo equilibrio lirico, che non richiede, come necessario e immediato, un pubblico.

Ed anche nel caso della Bellezza non si tratta di una profonda scoperta di un tema lirico, anche se – molto meglio che nella Prosopopea, tanto piú accademica ed esterna – al tema della creazione e della bellezza dell’universo, che il Monti riprendeva, nella sua articolazione fondamentale, da un discorso accademico tenuto a Roma il 25 maggio 1750 da Francesco Maria Zanotti[37], egli era portato da una particolare disposizione già affiorata nelle Visioni e che poteva ben combinarsi con il piacere di trattare un tema cosí adatto insieme alle sue tendenze piú vive e alla sua versatilità, alla sua eclettica disponibilità, alla sua perizia di gran virtuoso della parola nei suoi effetti fonici e immaginosi.

Ed una scelta indicativa comunque – se non di una scoperta e profonda elaborazione interiore – del tema centrale del canto (scelta legata ad una congenialità e disposizione, fra disposizione ai temi grandiosi e movimentati a sfondo cosmico e celeste e disposizione a temi ricchi di possibilità di variazioni numerose e diverse, o di esercizi di alta abilità tecnica) il Monti fece appunto, quando, in occasione delle nozze del principe Braschi[38], nepote del papa, e della contessa Falconieri, egli impiantò il suo componimento su quel tema particolare, mentre i numerosi versaioli che si presentarono pure alla grande recita in Arcadia (19 agosto 1781) per il ricevimento dei due sposi non si scostarono dalle solite canzonette epitalamiche condite di amorini e personaggi mitologici o dai sonetti encomiastici che finivano per lodare piú che gli sposi il papa eternantesi nei figli dei suoi nepoti (sonetto del padre Erba) o per variamente immaginare le gesta gloriose dei discendenti magari rappresentati – dato il carattere vaticanesco di quelle nozze – come eroi occupati in alti impegni di «fondar eremi e chiostri» (sonetto del conte Gamba Ghiselli).

Il Monti ridusse lo svolgimento dell’argomento d’occasione (che invece nella Prosopopea si fondeva col tema trattato) al minimo indispensabile e nell’edizione senese dell’83 (in cui la Bellezza ha subíto pochissime correzioni: il canto era riuscito di piena soddisfazione dell’autore[39]) tolse ancora tre versi finali, in lode dei due sposi, che deturpavano la conclusione cosí ben realizzata nella figura mobile ed elegante della Bellezza che fuggendo dal mondo in rovina ferma «l’eburneo piede» sui cieli eterni e che invece nella prima redazione era presentata intenta a scrivere sui cieli i nomi di Luigi e di Costanza.

In sostanza, se questo componimento non viene posto sull’assurdo piano della grande poesia (come fece il Flora che addirittura affermò che esso regge tutto al piú severo esame critico, mentre, come dirò, è oltre tutto evidente il pericolo di scadimento delle parti piú intense in puro esercizio di abilità, il pericolo della prolissità e della compiutezza oratoria), esso appare indubbiamente, nel cammino del Monti, la sua prima vera prova di maggior respiro, e se anche il tema non nasce da una «invenzione» lirica profonda e personale ha pure certo una sua congenialità con le tendenze che il Monti aveva maturato nel periodo precedente e di cui restano piú durature – pur in un affinamento e irrobustimento stilistico e in una disposizione piú intenta e pacata nel periodo piú tardo e veramente neoclassico – le qualità di entusiasmo e di meraviglia nella creazione di spettacoli grandiosi, di vasti scenari celesti, l’impeto immaginoso (di immagine sin troppo evidente nei suoi elementi di visività colorita e di sonorità, e troppo spesso priva del suo centro di «pathos») e la tendenza a costruzioni ampie (e con il pericolo sempre di prolissità e di sovrabbondanza) con l’alternarsi di quadri e toni piú cupi e piú estatici sull’unico fondo della ricerca del grandioso.

Ciò che piú colpisce è proprio il movimento di entusiasmo, un fervore immaginoso e ritmico che (nella sua natura ibrida poetico-oratoria) sorregge tutto il componimento con punte piú sicure e ispirate, con momenti piú apertamente oratori e scolasticamente descrittivi in cui prevale sul «vedere» il «far vedere» piú direttamente oratorio e declamatorio, sull’«entusiasmo» e sulla «meraviglia» piú personali, la volontà del fare entusiasmare e meravigliare il lettore e il compiacimento della propria bravura.

E quel fervore immaginoso si avvale, piú compiutamente e maturamente di quanto avvenisse precedentemente, di una grande ricchezza di toni e di sfumature (pur nel sostanziale prevalere dei due toni del grandioso tempestoso e catastrofico e di quello luminoso ed estatico) preparati nelle varie maniere sperimentate e qui utilizzate con mano agile, disinvolta e sicura (e la stessa esperienza di forme neoclassiche non vi appare senza frutto quanto ad una maggior possibilità di disegno là dove occorra: si pensi ancora alla figura finale), e di una selva di suggerimenti e sin di veri e propri «prestiti» altrui[40] in una spregiudicata utilizzazione delle vaste e diverse letture poetiche risentite nell’appoggio a singoli toni e sfumature, ma in generale riprese con una tipica forma montiana di espansione e di amplificazione delle immagini[41], coerente alla dominante tendenza montiana a creare un’onda immaginosa e sonora in cui il poeta sembra immergersi con una sua particolare voluttà.

Come avviene già all’inizio del componimento (vv. 1-9), cosí significativo per il susseguirsi ricco degli epiteti sonanti e immaginosi, per l’esito rilevato e trionfale della interruzione, per il movimento piú intenso e fra pensoso e drammatico dei versi centrali, in cui il richiamo all’uomo apre l’immagine grandiosa e malinconica-sublime su cui la voce varia della musicalità montiana pare approfondirsi in una voce maestosa d’organo, anche se manca una vibrazione profonda e l’impeto par piú un’allusione alla grande poesia che una realtà di grande poesia, piú una tensione ibrida al «sublime» che una mèta solenne raggiunta:

Della mente di Dio candida figlia

prima d’Amor germana, e di Natura

amabile compagna e maraviglia,

madre de’ dolci affetti, e dolce cura

dell’uom che varca pellegrino errante

questa valle d’esilio e di sciagura,

vuoi tu, diva Bellezza, un risonante

udir inno di lode, e nel mio petto

un raggio tramandar del tuo sembiante?

E, nel brano dal v. 16 al v. 54, l’impeto dell’entusiasmo immaginoso, sulla pedana di slancio delle interrogazioni che precedono, mostra tutta la sua maggiore forza e ricchezza, le sue risorse indubbiamente splendide e pure prive del segno della vera e grande poesia a cui questo passo piú che ogni altro della Bellezza pare piú avvicinarsi; specie nel movimento dei vv. 25-39 che, preparato da un’introduzione solenne (entro il cui svolgimento lento e maestoso si slancia, in un’immagine cupa e «sublime», un anticipo breve del tema di dramma cosmico che poi predomina: «stavasi ancora la terrestre mole / del caos sepolta nell’abisso informe / e sepolti con lei la luna e il sole»), raggiunge il culmine di un crescendo tempestoso in cui concorrono efficacemente il gesto largo e solenne delle figure della Divinità, della Sapienza e della Bellezza, il susseguirsi dei movimenti della lotta degli elementi e dell’assalto pauroso del caos contro le estreme, fantastiche mura del mondo ordinato da Dio:

Teco scorrea per l’infinito; e, quando

dalle cupe del nulla ombre ritrose

l’onnipossente creator comando

uscir fe’ tutte le mondane cose,

e al guerreggiar degli elementi infesti

silenzio e calma inaspettata impose,

tu con essa alla grande opra scendesti,

e con possente man del furibondo

Caos le tenebre indietro respingesti

che con muggito orribile e profondo

là del creato su le rive estreme

s’odon le mura flagellar del mondo;

simili a un mar che per burrasca freme,

e sdegnando il confine, le bollenti

onde solleva, e il lido assorbe e preme.

Ma si guardi subito all’ultima terzina tanto inferiore a quelle tese e possenti che la precedono e che dà una sconcertante impressione di intimo cedimento, di scadimento in un paragone esterno, richiesto solo dall’onda di immagini e suoni, da una compiutezza retorica, bisognosa di un’ultima clausola eloquente, e si capirà come – e tante volte occorre costatarlo proprio nei momenti in cui la tensione montiana sembra salire verso una poesia effettivamente grandiosa e sublime – nel Monti vi sia sostanzialmente sempre il pericolo di una caduta puramente retorica, una mancanza di autentica misura, del prevalere isolato della componente eloquente, il pericolo di uno strafare che guasta i momenti piú promettenti e ne denuncia l’intima incompiutezza, la scarsa profondità nucleare.

Cosí come spesso nella Bellezza si alternano espressioni davvero nuove e suggestive («dalle cupe del nulla ombre ritrose») con altre prosastiche, facili, addirittura banali (come ai vv. 274-275 si ricorrerà ad un’espressione da vero e proprio luogo comune: «per te all’occhio divien viva e parlante, / la tela e il masso...»), e per la mancanza di una vera capacità di elaborazione poetica profonda e originale si scivola in espansioni di voce facili, di un lirismo cantabile e orecchiabile senza vibrazione intima (vv. 224-225: «ancora / sei bello e grande nella tua rovina!»[42]).

Ma nella parte iniziale il fervore entusiastico riprende ancora vigore nello svolgimento (pur certamente meno convincente) del tema cosmico nel suo aspetto non piú terribile, ma estatico, radioso di immagini colorite e suggestive (vv. 40-54):

Poi ministra di luce e di portenti,

del ciel volando pei deserti campi,

seminasti di stelle i firmamenti.

Tu coronasti di sereni lampi

al sol la fronte; e per te avvien che il crine

delle comete rubiconde avvampi;

che agli occhi di quaggiú, spogliate alfine

del reo presagio di feral fortuna,

invian fiamme innocenti e porporine.

Di tante faci alla silente e bruna

notte trapunse la tua mano il lembo,

e un don le festi della bianca luna;

e di rose all’Aurora empiesti il grembo,

che poi sovra i sopiti egri mortali

piovon di perle rugiadose un nembo.

Brano che, mentre conferma una caratteristica del gusto montiano (l’alternarsi efficace di toni cupi e forti e di toni rapiti ed estatici), indica assai bene – e in un momento indubbiamente felice – il carattere prevalentemente cromatico del linguaggio poetico montiano, il prevalere del colore (che solo in certi momenti piú maturi si farà luce, come solo in certi momenti d’eccezione la sonorità si farà musicalità e canto) con chiari pericoli di eccesso, di sovrabbondanza, denunciati anche qui da quell’aggettivo «rubiconde» (cosí poco intimo, cosí convenzionale), che il Monti si porterà dietro, come segno della sua tendenza al colore vistoso, fino in certe opere piú mature e piú temperate da una piú sicura assimilazione del gusto neoclassico. Per non dir poi di certe cadute nel lezioso che dànno un tono piú facile ed esteriore alla ripresa qui di certi chiari motivi di madrigali del Tasso.

Il resto del lungo componimento, sul cui esame non credo utile indugiare, conferma le osservazioni già fatte sui modi di questa poesia da gran «virtuoso» (si pensa a volte a sonate lisztiane), cromatica e coloritamente chiaroscurale, abilissima nel presentare quadri energici ed estatici, nel descrivere immaginosamente e musicalmente scene in movimento, prestigiose apparizioni di nuove forme di vita con un procedimento (e con il piacere di «vedere» e «far vedere», del meravigliarsi e del far meravigliare) che spesso scade in pura bravura: come specialmente il brano sulla creazione degli animali (con quel balzare delle varie figure rapidamente e riccamente caratterizzate che tanto dové colpire i contemporanei e che è cosí lontano dal nascere profondo delle figure in una fantasia veramente e interamente poetica: si pensi all’immagine del leone – vv. 85-87 – in cui la definizione della belva come il «biondo imperator della foresta» è un puro e semplice luogo comune, una definizione facile e banale) o come nella compiaciuta presentazione delle varie parti del corpo umano e delle loro mirabili capacità funzionali (occhio, bocca, mano, piede) o come nei quadri abili ed efficaci – ma disposti in forma di alta esercitazione piú che di commossa rappresentazione – delle meraviglie della scienza[43].

Solo alla fine una ripresa sapiente del tema iniziale, il cosmo grandioso, esasperato in una visione fragorosa della fine del mondo, ci riporta alla maggiore tensione di quella prima parte e suggella con un ultimo e forte chiaroscuro (il crollo del mondo e il volo della bellezza nei cieli dove essa fermerà stabile l’«eburneo piede») questo componimento in cui l’accesa – ma non profonda e ibridamente poetico-retorica – immaginazione del Monti ha dato la prova piú impegnativa delle sue capacità in questa fase esuberante e giovanile.

Dopo la Bellezza, ben poco interessano certi componimenti commissionati come le due cantate drammatiche Per la nascita del delfino di Francia (1782), veri prodotti di decoroso artigianato lavorati a puro scopo di guadagno, né presenta un risultato notevole nel suo insieme quel poemetto Il pellegrino apostolico che può mostrare, se ce ne fosse bisogno, la scarsa penetrazione storica del Monti e la sua tendenza a cogliere negli avvenimenti storici gli aspetti piú esterni, vistosi, quasi piú popolari. L’avvenimento – il viaggio di Pio VI a Vienna nel 1782 per tentar di distogliere l’imperatore Giuseppe II dalla sua politica antiecclesiastica – aveva un suo spicco effettivamente drammatico e drammatica, a suo modo, era l’umiliazione subita dal papa accolto a Vienna con grande freddezza e sostanzialmente costretto a ripartire senza nessuna concessione da parte dell’imperatore (come avevano preveduto i cardinali piú acuti). Ma il Monti riprese la versione piú ingenua e cortigiana: insisteva sulla partenza del «pellegrino apostolico» all’alba fra il popolo piangente, immaginava, nella solita forma della visione, l’arrivo del papa a Vienna fra la commozione dei cittadini e l’incontro fra il papa e l’imperatore in tono di idillio politico, di «tenera amicizia», fra lacrime e rossore di commozione.

In questo scadentissimo poemetto si potrà solo osservare, in mezzo alle fastidiose e inutili pagine di visione con ombre e angeli, un certo anticipo, nel brano dell’arrivo di Pio VI a Vienna, di quel gusto narrativo e descrittivo di azioni, di movimenti di masse, che si svolgerà (con interesse particolare per i romantici come Berchet e Manzoni) in certe pagine piú vive della Bassvilliana. Si guardi, ad esempio, ai seguenti versi del canto II:

E le madri di gioia palpitanti

t’insegneran col dito ai pargoletti

con mille baci confondendo i pianti:

ed essi delle madri al fianco stretti

ti cercheran col guardo, e si dorranno

che veloce trapassi e non aspetti,

ed il picciolo mento allungheranno,

onde sul folto della calca alzarse

con avid’occhio e fanciullesco affanno.

Ma, a parte l’interesse di qualche spunto in questa direzione, il poemetto, ripeto, è opera poverissima e convenzionale. Potrà solo ancora osservarsi che, in quella curiosa presentazione dell’incontro immaginato cordialissimo fra papa e imperatore, circola – si può capire con quale effetto stonato in tal caso – un’aura patetica e languida da scenetta da romanzo preromantico, da incontro di âmes sensibles: un’aura del resto che cresce d’intensità nelle lettere di questo periodo e investe un po’ tutte le relazioni e gli aspetti della vita del Monti quale appunto in queste lettere ci si presenta. Non solo per la presunta nuova intesa fra papa e imperatore vi si parla di «tenera amicizia», e nei rapporti con varie persone si accentua il tono della confidenza sentimentale e della sfumatura malinconica, ma persino in una lettera diretta al fratello, poco disposto probabilmente a ricevere queste effusioni preromantiche, il Monti sentiva il bisogno di dichiarare il proprio amore esclusivo per la «malinconica solitudine».

La moda, il costume sentimentale e letterario preromantico dominante vengono assimilati dal Monti che già nel ’78 aveva fatto versi d’intonazione preromantica ed aveva arricchito le sue possibilità espressive di nuovi toni e cadenze patetiche e malinconiche. Ora il contatto con le correnti preromantiche si fa piú forte e si traduce addirittura nei modi sentimentali con cui il Monti vive e colora una vicenda amorosa, reale, ma tutta impostata e quasi costruita su di uno schema wertheriano, la cui presenza è reperibile nella doppia espressione di quella vicenda, in prosa e in versi, in un gruppo di lettere (dirette, si badi bene, non alla fanciulla amata, Carlotta Stewart, fiorentina, ma alla intermediaria compiacente, la nota improvvisatrice Fortunata Sulgher Fantastici, nella cui casa di Firenze nell’autunno dell’82 i due giovani si erano conosciuti: donde la possibilità di riprendere lo schema wertheriano della narrazione epistolare ad una sensibile confidente), scritte fra l’ottobre dell’82 e l’agosto dell’83, e nei componimenti poetici: gli sciolti al Chigi e i Pensieri d’amore.

Biografia e letteratura si mescolano, come avverrà per il Foscolo dell’Ortis (di cui questo gruppo di lettere e queste poesie possono sembrare un pallido preludio), ma con l’evidente differenza di un fondo di passione tanto diversamente superficiale e di una mèta artistica tanto meno complessa ed autentica.

Nel caso del Monti ci si presenta un curioso romanzetto sentimentale a cui non occorre negare una fondamentale sincerità psicologica, anche se certamente quell’amore per la «giovane fiorentina» ha piuttosto l’aria di una infatuazione giovanile nata da un rapidissimo incontro (tanto rapido che a breve distanza da esso già il Monti si mostrava incerto sulle precise sembianze del volto amato e ne domandava cautamente notizie al marito della Fantastici), sollecitata già nel suo nascere da tipiche condizioni di costume letterario-sentimentale (l’incontro era avvenuto nel clima propizio di una casa di letterati, fra letterati imbevuti di sentimentalismo preromantico, e per di piú la fanciulla si chiamava provvidenzialmente Carlotta come la celebre protagonista del Werther), e presto, nella fantasticheria, confortata dalla lontananza e dalle prime difficoltà, irrobustita e precisata dalla possibile analogia con la vicenda wertheriana (son gli anni della diffusione del wertherismo in Italia – il Werther era stato tradotto dal Grassi proprio nel 1781 –, gli anni della moda wertheriana[44]).

E sarà bene notare che, mentre all’inizio la confessione epistolare alla Fantastici appare già intonata preromanticamente, ma in forme piú generiche e quasi con una qualche incertezza, essa acquista di forza e di continuità quando una lettura piú attenta del Werther (e frasi del romanzo goethiano vengono a precisare già nelle lettere, prima che nelle poesie, la vaga tensione sentimentale del giovane innamorato) dette un significato e una intonazione piú sicuri alla vicenda amorosa, che dal suo fondo piú comune e borghesuccio (il Monti voleva anche accasarsi, concludere un matrimonio non svantaggioso, e gli aspetti pratici della faccenda non gli sfuggirono mai del tutto e tanto piú prevalsero quando la tensione sentimentale-letteraria trovò il suo risultato nelle poesie e la passione sbollí cedendo facilmente di fronte alla ostilità dei fratelli e alle sue convenienze di fedele cortigiano[45]) sale a toni piú enfaticamente drammatici e appassionati proprio colorandosi, mercé la suggestione wertheriana, di tinte fosche e tenere, di cupe immagini di morte e di disperazione, e addirittura di significati cosmici e pessimistici, fatali: il dolore universale, la natura sofferente e chiamata a partecipare alle sofferenze dell’amante. Si vedano in proposito le lettere del 18 gennaio, dell’8 febbraio e specialmente quella del 15 febbraio 1783[46], in cui l’accento erotico-pessimistico giunge al suo massimo, utilizzando precisi passi e temi goethiani che passano poi negli Sciolti al Chigi e nei Pensieri d’amore («Una terribile idea si è insinuata nell’anima mia; un’idea che mi perseguita e mi presenta dinanzi agli occhi un avvenire tenebroso e funesto. Mia dolce amica, sarebbe egli mai decretato nel Cielo che Carlotta non dovesse esser mia? Questo amore cosí ardente, cosí puro, che io sento per una cosí amabile creatura, sarà egli mai fortunato e felice? Io non domando al Cielo che questo solo bene, io non sono sensibile che a questo pensiero, io non mi occupo che di questa larva seducente e soave. Soave finché non sottentra un timore crudele che la dissipa e dilegua l’incanto delle mie speranze... Non so donde abbiano origine i presentimenti che mi serrano il cuore. So che tutte le mattine mi sveglio bagnato di lagrime. Non trovo altro sollievo che a lasciarle correre in gran copia dagli occhi, altro conforto che a gemere e singhiozzare e stendere le mani verso del Cielo... Lontano da tutti, non ho altri in mia compagnia che la dolce immagine di Carlotta. Questa mi sta davanti nella veglia e nel sonno. L’ho dentro gli occhi allorquando mi addormento, la ritrovo negli occhi allorquando mi sveglio, con essa io parlo, con essa mi perdo in teneri colloqui, e sento che il cuore si allarga e raddoppia i suoi palpiti, e non mi cape nel petto...») e saldandoli – ma sono certo queste le parti che, nell’enfasi sentimentale del costume e della prosa preromantica, spiccano per forme piú esagerate e quasi goffe per eccesso – con particolari attestazioni della sua vita cambiata, solitaria e infelice («Cerco sempre il silenzio e la solitudine. Aborrisco la società e non conto nel numero de’ miei amici altro che i poveri e gli afflitti. Mi porto qualche volta al teatro, ma solamente allorquando si recitano delle tragedie. Mi nascondo da me solo nel fondo di un palco, e là mi abbandono intieramente all’orrore patetico della rappresentazione: mi immergo nel pianto e nella compassione delle altrui sventure; ed ogni sentimento ed ogni espressione mi piomba nel cuore») e con replicate assicurazioni della eccezionale forza della sua passione: «Oh Dio! mia dolce amica, oh Dio! non è possibile che io vi esprima i trasporti dell’animo mio, né che voi possiate immaginarveli. No, non è possibile. Una sola scintilla dell’amore che porto a Carlotta... una sola scintilla sarebbe bastante ad infiammare il cuore piú freddo e duro che si trovi nella natura. Ma che dico un cuor solo? Dovevo dire mille cuori». Dove appare in forma sino ridicola la componente retorica dell’entusiasmo montiano: convincere «gli altri della propria passione ineguagliabile».

Tutto ciò fa ben capire come questo romanzetto d’intonazione preromantica (che, come dicevo, finí poi piuttosto miseramente – esaurita appunto la sua funzione piú vera, di sostegno di un’espressione poetica – fra il prevalere di preoccupazioni pratiche e l’evidente sazietà di una infatuazione poco legata al suo preciso oggetto[47]), e non privo di un suo interesse documentario anche per la prosa preromantica[48], dovesse avere il suo vero risultato in una espressione letteraria piú congeniale della prosa al gusto montiano di una forma melodica e fortemente immaginosa.

Nacquero cosí anzitutto nell’83 quegli sciolti A Don Sigismondo Chigi[49], in cui, sulla base della tenue vicenda autobiografica e di una vena malinconica non insincera, ma non profonda, e sollecitata, quasi attratta soprattutto da una sentimentalità diffusa nel tempo e precisata dall’esempio del Werther, si svolge, con risultati francamente piacevoli e letterariamente pregevoli (con la prevalenza di parti piú suggestive, ma non senza altre piú semplicemente abili, e con il pericolo spesso della immaginazione oziosa e della prolissità[50]), un’elegia con poli idillici e drammatici, che non raggiunge mai punti di intensa, profonda liricità, e risolve in un’onda patetica e melodiosa a volte veramente incantevole i motivi preromantici già presenti nelle lettere alla Fantastici e ripresi soprattutto dal testo goethiano. Questo costituisce la base essenziale del componimento montiano che in certo modo è come un rifacimento originale, un armonioso commento, un’amplificazione in forme piú melodiche e morbidamente sentimentali[51], in aria da novella preromantica (e fino a limiti di una vera e propria oleografia sentimentale), di alcuni passi wertheriani abilmente collegati in una linea ampia di confessione patetica che, come dicevo, ha due parti e due poli fondamentali, fra cui tutto il componimento si svolge con un sapiente trapasso chiaroscurale.

Nella Bellezza il chiaroscuro era costituito dal tono grandioso solenne e catastrofico e da quello pure grandioso, ma estatico, dolce e rapito; qui sul fondo di un patetismo elegiaco si passa da una prima parte piú idillica (il ricordo e il rimpianto della dolce serenità perduta a causa della passione amorosa) ad una di tono piú lugubre e fosco, di tormento, di disperazione, di desiderio di morte. Comuni a tutte e due, e al momento di passaggio, una dolce enfasi sentimentale, una pienezza di immagini compiute ed ampie, una ricchezza di luci e colori, una cadenza ad onda senza mai brusche interruzioni che dànno una specie di rotondità melodica, una cantabilità suggestiva anche a quei movimenti di tormento e di disperazione che qui hanno perduto il carattere di profonda drammaticità dell’originale e di quelle riprese dell’Ossian (gli interrogativi cosmici, il tema del paesaggio doloroso, dell’amara rimembranza) che con tanta abilità il Monti fonde alle riprese wertheriane portando la mediazione già cosí efficace della versione cesarottiana (mediazione di nuovi temi poetici preromantici in modi piú italiani e tradizionali) ad una dosatura di sentimentale e di melodico, di patetico e di immaginoso a suo modo nuova ed efficace. Sicché piú che di una commozione profonda si può parlare di un vagheggiamento melodico e immaginoso di temi sentimentali che toglie ogni asprezza, anche quando, ad esempio, nel finale appare il tema del suicidio e della tomba nella cui patetica contemplazione – in un quadretto incantevole e concluso – si immagina la figura pietosa dell’amico fedele:

Allorché d’un bel giorno in su la sera

l’erta del monte ascenderai soletto,

di me ti risovvenga, e su quel sasso,

che lagrimando del mio nome incisi,

su quel sasso fedel siedi e sospira.

Volgi il guardo di là verso la valle,

e ti ferma a veder come da lunge

su la mia tomba invia l’ultimo raggio

il sol pietoso, e dolcemente il vento

fa l’erba tremolar che la ricopre.

I Pensieri d’amore (anche essi dell’83) vivono pure nel riferimento alla tenue vicenda autobiografica e al testo wertheriano, ma si distinguono dagli sciolti al Chigi per un’abilissima e suggestiva variazione di costruzione: gli sciolti eran disposti in un compatto fluire di sentimento, in una meditazione elegiaco-idilliaca con punte drammatiche, ma sostanzialmente risolta tutta in un’onda continua patetica e melodiosa; i Pensieri d’amore si presentano come pensieri frammentari, come frammenti lirici in cui l’animo del poeta innamorato si esprime per improvvise accensioni e abbandoni. Ciò che colpí qualche romantico come prova di immediatezza (e il Tommaseo parlò di «sospiri sfuggiti nell’impeto della passione») e poté agevolare la simpatia dei moderni cultori del frammento e della poesia pura (e Falqui e Capasso scelsero, per la loro sintomatica – per il gusto frammentistico e puristico degli anni Trenta – antologia Il fiore della lirica italiana, appunto uno di questi Pensieri). In realtà si tratta di una meditata costruzione e le stesse pause e interruzioni, brusche riprese e ripensamenti hanno tutta l’aria di essere stati calcolati con grande sapienza ed efficacia compositiva per una sorta di continuità singolare e di grande effetto, attuata con forme di improvviso contrasto, di ripresa e sviluppo, di morbide distensioni dopo accensioni violente: come, ad esempio, nella calcolata vicinanza del III, che inizia con forza e finisce con l’immagine patetica della fanciulla che inclina, nel pensiero del poeta, il capo sulla spalla dell’innamorato, del IV con la sua violenta esplosione sentimentale, del V nuovamente e interamente languido e come spossato nel suo vagheggiamento di un ipotetico idillio amoroso.

Ne risulta, nel complesso, la creazione di un’atmosfera suggestiva in cui il colore sentimentale si accende e si smorza in una linea abilissima e nuova a cui molto contribuiscono appunto le pause, gli intervalli, i rapporti fra “pensiero” e “pensiero”. Non che anche qui salga una voce profonda dell’animo, ma la disposizione elegiaca (che troverà un alimento indubbiamente piú personale in alcune poesie dell’ultimo periodo e in certi brani della Feroniade) è ora singolarmente condotta (tanto meglio di quanto avveniva nelle prime elegie del ’78) a colorire di sé le immagini e le cadenze fra languide ed eccitate, che il Monti riprendeva dalla poesia preromantica privandole del loro significato piú intenso e svolgendole con la sua voce pastosa e sonora. E toccando i risultati piú efficaci quando la sentimentalità preromantica piú si presta al suo istintivo gusto di una visione (piú che di una meditazione lirica) di stati d’animo tradotti in quadri vasti, immaginosi e musicali: come il pensiero VIII[52] in cui – con un’efficacia visiva e sonora che poté rendere questo testo presente all’attenzione del Leopardi insieme ai testi piú densi e stimolanti dell’Ossian o del Werther da cui derivano qui i temi della notte silenziosa, delle domande cosmiche, delle rimembranze – i temi appunto piú significativi del preromanticismo vengono mediati e svolti in una forma tanto piú floridamente melodiosa e visiva, in un linguaggio sapiente ed eloquente (un’eloquenza patetica ed elegiaca fusa e morbida che sfrutta le risorse della lingua poetica della tradizione italiana), mentre se ne perdono i rilievi ed i sensi piú ansiosi, pessimistici, drammatici.

Questa intonazione patetica ed elegiaca sollecitata dal contatto con i testi e il costume sentimentale e letterario del preromanticismo (e ad alcuni, come il Tommaseo, parve questa, insieme alle forme del cantore di fatti contemporanei, senza mitologia classica – Bassvilliana, Mascheroniana – , la vera strada del Monti, non quella neoclassica) trovò in questi anni piú diretta prosecuzione nelle tragedie e lasciò le sue tracce anche in componimenti di altra occasione e di diversa tematica. Come (per non dire di segni piú esterni come nel caso di un componimento Per nozze illustri[53] l’atteggiarsi del Monti a «vate malinconico» dalla «dolente cetera») in alcune poesie di argomento galante, in cui la nota patetica elegiaca porta lievi sfumature di arricchimento gradevole all’intonazione edonistica (si veda nelle odicina All’amica[54] il refrain «l’aprile del piacer / passa e non torna»), e l’attenzione al colorito sentimentale frutta una capacità notevole di trapassi psicologici, di soluzioni sensibili di affetti in immagini, di cadenze patetiche, che, nelle strofette settecentesche, fan pensare ad un certo svolgimento dal Vittorelli al Berchet del Trovatore (si veda, ad esempio, Amor vergognoso, e specie la rappresentazione della timida fanciulla innamorata[55]), impressione che si appoggia anche sulla capacità montiana di un lieve realismo già osservato in alcuni versi del Pellegrino apostolico.

Piú isolata rispetto alle esperienze e all’intonazione prevalente nella produzione montiana di questi anni è l’Ode al Signore di Montgolfier del 1784, che riprendeva forme metriche già sperimentate nella Prosopopea di Pericle e con esse una linea piú neoclassica, abbandonata negli anni della maniera preromantica, insieme ad un impeto di entusiasmo lieto e vitale che in quelle forme scattanti ed agili (pur sempre orientate ad un esito di grandiosità immaginosa) meglio poteva esprimersi.

Si tratta, si badi bene, di esperienze, di atteggiamenti che non si potrebbero collegare senza evidente sforzo in uno svolgimento dinamico profondo come avviene esemplarmente nel periodo giovanile del Foscolo, in cui dallo sfogo elegiaco-idilliaco del primo Ortis alla lieta vitalità elegante dell’ode alla Pallavicini e poi al piú intenso movimento drammatico del secondo Ortis e dei sonetti ortisiani fino alla superiore serenità dei grandi sonetti e dell’Ode milanese (in cui la drammaticità, piú che elusa come nella prima, è rivista da un punto piú alto, superato in una condizione piú sicura) c’è tutto un processo di esperienze spirituali e stilistiche, saldamente legate come in una spirale ad un unitario e dinamico sviluppo dell’animo foscoliano.

Il Monti invece procede a sbalzi e piú in relazione ad occasioni, con una necessità tanto meno intima ed unitaria. Ma certo questa nuova prova di poetica rappresenta un momento piú maturo nella elaborazione della sua difficile esperienza neoclassica e offre un risultato molto notevole dell’incontro fra alcune sue disposizioni e tendenze fondamentali in una condizione felice e l’accettazione di una misura maggiore, di un gusto piú attento e rigoroso. E certamente un risultato di ben diverso valore rispetto alla Prosopopea di Pericle da cui esteriormente la nuova ode-canzonetta prende le mosse quanto a metro e moduli neoclassici. Qui quelle forme vengono riempite – diversamente da quanto avviene nella «canzonetta per il papa», in cui il neoclassicismo è esteriore e mal corrisponde all’intimo bisogno di espansione grandiosa – da un entusiasmo tanto piú schietto e vivo, «occasionale», ma sincero, nella corrispondenza propizia (il Monti è poeta del sí, non del no, dell’adesione, non della protesta), e fra un entusiasmo generale del tempo e quello personale dello scrittore.

L’occasione dell’ode è appunto l’entusiasmo suscitato in tutta Europa dalle ascensioni dei palloni aerostatici: una conquista della scienza che ebbe echi anche nella poesia, sebbene con giudizi e posizioni assai diversi. Cosí l’Alfieri nel sonetto 97° della prima parte delle Rime[56] fu colpito dall’ascensione nel suo significato romantico di evasione (o di tentativo di evasione) dell’uomo dal suo «carcere», dai limiti che la natura gli ha imposto (e che tanto fortemente vengono ribaditi dal poeta nella tensione stessa con cui si tende a superarli), mentre il Parini nel sonetto Per un pallone areostatico[57] mostra tutte le sue preoccupazioni di illuminista pensoso per il bene degli uomini e chiede alla natura che favorisca la nuova scoperta se potrà render piú felice il genere umano e che invece la faccia fallire se può nuocergli.

Il Monti naturalmente aderisce all’entusiasmo piú facile e generale a cui la «pacifica filosofia sicura» appariva ormai superba trionfatrice di ogni ostacolo e, nelle sue applicazioni pratiche e tecniche, raccoglieva l’adesione anche di quegli ambienti, come quello romano, che favorivano una versione edulcorata e tecnologica dell’illuminismo mentre combattevano le forme filosofiche coerenti e rivoluzionarie (sicché poi la «pacifica filosofia sicura» esaltata qui dal Monti poeta della corte romana diverrà nella Bassvilliana l’idra della filosofia enciclopedistica madre della rivoluzione e del Terrore).

Anzi lo spunto immediato venne al Monti da un annuncio del 14 febbraio 1784 del volo di Charles e Robert nel «Giornale delle belle arti» di Roma, in cui si trova anche l’avvicinamento fra il mito antico degli Argonauti «che solcarono il mare a conquistarsi l’immortalità» e l’impresa contemporanea dei volatori francesi; avvicinamento che fu come la scintilla d’avvio della poesia montiana, recitata al solito in Arcadia il 4 marzo 1784 e vera interpretazione di un largo entusiasmo generale.

Nell’onda di entusiasmo che qui investe tutto il componimento sono però da distinguere delle componenti e gradazioni di vario valore e intensità: ci sono elementi piú facili di entusiasmo e compiaciuta meraviglia e adatti ad una espressione efficace, ma generica ed eloquente (specie sul tema finale del progresso con un ottimismo conviviale e un po’ grossolano), ma c’è anche una gradazione piú genuina ed intima di quegli elementi fondamentali: la meraviglia si fa poetico stupore di fronte allo spettacolo mitico dell’impresa degli Argonauti e al mito moderno del globo areostatico. E certo i momenti piú vivi e persuasivi dell’ode sono appunto l’inizio (il mito degli Argonauti), la rappresentazione dell’ascensione del Robert e della stupita emozione degli spettatori e insieme il singolare effetto di stupore che i volatori provano guardando dall’alto la terra. Fuori di queste parti l’ode vive del generale afflato entusiastico, ma nelle sue gradazioni piú eloquenti e di compiacimento di bravura espressiva.

Particolarmente notevole l’inizio (il Momigliano parlò addirittura per i primi venti versi del «piú lungo brano di grande poesia che il Monti abbia scritto») in cui le qualità caratteristiche di tutta l’ode sono presenti nella loro piú ispirata giustificazione: il moto rapido e lieto che corre per tutta l’ode (e che con la sua rapidità brucia in certo senso ogni eccesso di abbondanza dell’immagine ed evita cosí il pericolo piú comune nel Monti, la prolissità e lo svolgimento in un’immaginosità oziosa) qui trova il suo ritmo poetico nella luminosa successione dei quadri mitici dell’impresa degli Argonauti, rapidi e come raccorciati pur nell’intima tensione dell’immagine e del suono che si è fatto piú brillante e limpido, coerente ad una linea gesto maestoso e solenne, alla figura florida ed ampia:

su l’alta poppa intrepido

col fior del sangue Acheo

vide la Grecia ascendere

il giovinetto Orfeo.

E la meraviglia, il «vedere» vengono piú intimamente risolti (senza la piú forte presenza del far meravigliare, del «far vedere», che anche nella Bellezza si rendeva esplicita persino con tipiche esortazioni introduttive e retoricamente replicate: «vedi», «vedi», «ecco», «ecco») nello stupore implicito nella scena rappresentata, nella sua visività sicura, nel movimento, nell’atteggiamento dell’immagine («vide la Grecia» ecc.), cosí come il colore, elemento cosí essenziale per il Monti (ma spesso eccessivo e persino quasi sfacciato), sale alle sue piú luminose e trasparenti gradazioni ed è insieme piú suggestivo e piú puntuale, piú appropriato: come quella luce di avorio nelle «dita eburnee» del cantore Orfeo che ne illumina la lira melodiosa e magica, o l’algoso colore dei «verdi alipedi», dei cavalli alati di Nettuno.

Un piú genuino incanto fresco e giovanile spira da queste prime strofe e, ripeto, l’elemento della meraviglia qui si trasvalora in un’aura di stupore mitico che emana dai gesti e dalle figure[58] con continua coerenza di suggestione e, seppure sempre con una certa accentuazione di rilievo, di brio e di floridezza, e lo stesso «mirabile» dei testi classici qui utilizzati (soprattutto il pometto LVIII di Catullo) è sentito in maniera piú congeniale. Poi, mentre le strofe seguenti, che efficacemente conducono dal mito antico alla rappresentazione dell’impresa mirabile dei nuovi Argonauti del cielo, seguono il filo piú esterno dell’entusiasmo montiano, al centro dell’ode torna a dominare il motivo piú intimo dell’incanto e dello stupore, la gradazione piú valida dell’entusiasmo poetico, e si precisa una nuova zona valida, in cui il mito moderno viene a corrispondere al mito antico (anche con un efficace risultato di equilibrio nella costruzione) e usufruendo della stessa suggestione ottenuta nella prima parte eleva in un’aura tra leggendaria e fiabesca lo spettacolo dell’ascensione rivissuto nell’assorta contemplazione, nella partecipazione intensa degli spettatori e, in un impasto di elementi mitici e di elementi realistici[59], veramente efficace e superiore ad ogni risultato raggiunto in questa direzione dal classicismo savioliano, mitizza l’avvenimento contemporaneo senza fargli perdere la sua freschezza e quasi il suo accento popolaresco:

Tace la terra, e suonano

del ciel le vie deserte:

stan mille volti pallidi

e mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi

in mezzo allo spavento,

e i piè mal fermi agognano

ir dietro al guardo attento.

Ma la misura eccellente qui raggiunta è pur di breve durata e nella seconda parte dell’ode solo un ritorno al motivo piú vivo anima veramente la breve rappresentazione della contemplazione della terra vista – spettacolo del tutto nuovo per gli uomini – dall’alto, dalla navicella del pallone aerostatico, dai volatori, in cui ancora una volta affiora l’incanto dello stupore che si traduce nell’immagine sfocata e favolosa della terra che si allontana:

Fosco di là profondasi

il suol fuggente ai lumi,

e come larve appaiono

città, foreste e fiumi.

Piú ad effetto, anche se indubbiamente brillante e animato, il finale, in cui predomina la componente piú facile dell’entusiasmo, l’ottimismo volgare, la fiducia (cosí poco meditata e maturata) nel progresso della scienza: un finale veramente da declamatore che cerca l’effetto vistoso e lo trova nell’immagine iperbolica degli uomini che giungeranno a «infrangere anche alla morte il telo» e a «libare il nettare della vita» in cielo con Giove.

L’esperienza di questa ode rimane a lungo inutilizzata (essa è una tappa singolare del cammino del Monti verso il neoclassicismo, la strada in certo senso piú difficile, ma piú fruttuosa per le sue espressioni piú mature) e il Monti, che in quella aveva indubbiamente raggiunto uno dei suoi risultati piú interessanti, e notevoli anche nella storia del gusto dell’ultimo Settecento (un incontro singolare di neoclassicismo e di impeto immaginoso e sonoro, già piú contenuto e temperato appunto da moduli neoclassici), si volse invece, per la spinta del suo eclettismo, per il bisogno piú esterno di affermazione in ogni genere letterario ed anche sotto l’impulso delle sue letture e di motivi della sentimentalità preromantica non del tutto esaurita negli sciolti al Chigi e nei Pensieri d’amore, alla creazione di tragedie.

La tragedia era una vecchia aspirazione del Monti fin dal suo arrivo in Roma e già in una lettera del 3 dicembre 1779 al Bertola egli aveva scritto enfaticamente: «Io mi sento in petto una fame di scriver tragedie che propriamente mi uccide. Questa è la mia smania e sono disperato perché ho paura di morire prima di poter comporre una tragedia»[60]. In realtà piú che di una necessità intima (anzi nella vasta gamma di disposizioni montiane non c’è una vera disposizione alla costruzione tragica, alla vita di personaggi, e vedremo che semmai si potrà parlare di voci, di parlate da melodramma nuovo, a parte una relativa abilità teatrale) si trattava di una velleità legata all’alta considerazione di tutto il secolo per il «genere perfettissimo», considerazione rinnovata particolarmente nell’ultimo Settecento dalla generale tendenza alla poesia sublime e dal recente esempio alfieriano stimolante e sconcertante per i letterati italiani divisi fra un’ansia di novità (sollecitata anche in certi ambienti piú avanzati dalla recente diffusione del teatro shakespeariano) e la seduzione delle vecchie soluzioni arcadiche alla Maffei e del melodramma metastasiano.

E proprio la presenza dell’Alfieri in Roma fra l’81 e l’83, le rappresentazioni e letture dell’Antigone, della Virginia, del Saul, furono particolare incentivo alla realizzazione dell’antica aspirazione del Monti, che, mentre sentí e ammirò la novità dell’Alfieri[61], avvertí anche la sua difficile accettabilità da parte del gusto contemporaneo (pronunciatosi per lo piú negativamente nei giudizi dati sulle prime tragedie alfieriane pubblicate nell’83 a Siena) e poté sperare di rappresentare come il superamento di ciò che i contemporanei accusavano nell’Alfieri (soprattutto durezza di verso e asprezza di linguaggio) riprendendone con la sua forma fluida e sonante la forza drammatica e realizzando una specie di terza via fra Metastasio ed Alfieri: e infatti, quando venne rappresentato l’Aristodemo, molti videro in quel lavoro fallito nientemeno che la vera perfetta tragedia con cui l’Italia vinceva la sua gara tradizionale con il teatro francese.

La prima tragedia montiana, l’Aristodemo, scritta e rappresentata nell’86, ebbe uno strepitoso successo a causa della presenza eclettica in quell’epoca di elementi del gusto e delle idealità del tempo senza che nessuno di essi sia condotto ad una risoluta prevalenza (la fortuna facile dei compromessi che accontentano un po’ tutti e non urtano nessuno, mentre le opere veramente nuove e rivoluzionarie turbano e inizialmente suscitano piú dissenso che consenso[62]). Ci sono puntate anticortigiane e antitiranniche riprese dall’Alfieri, ma ci sono anche elogi dei re buoni, tirate contro la superstizione, ma anche esaltazioni untuose della religione avita; il soggetto e l’ambiente sono greci, cari cosí al gusto neoclassico, ma l’intonazione è patetica, lacrimosa, preromantica (e a taluni lo stesso protagonista parve un travestimento classico del giovane Werther), ci sono elementi tradizionali (la stessa ripresa del soggetto dalla ben diversamente poetica tragedia secentesca del Dottori) ed elementi wertheriani ed ossianeschi fino al gusto sepolcrale reso qui vistoso e quasi grottesco (tutta l’azione si svolge intorno alla tomba di Dirce, uccisa dal padre Aristodemo), fino all’uso di spettri e ombre ripreso dalle tragedie shakespeariane e, mentre nella situazione dei personaggi la forza drammatica è intenerita da una sensibilità languida e facilmente commovente («far piangere» è qui l’impegno piú evidente del Monti), nello stile e nel linguaggio le asprezze alfieriane (a volte riprese sino nelle caratteristiche spezzature di un verso in piú battute) vengono mescolate con cadenze elegiache e idilliche di preromanticismo patetico, con melodie metastasiane, e risolte in un impasto sontuoso e immaginoso, sonante, secondo il piú generale gusto montiano.

Naturalmente, questo compromesso, questa mescolanza, quest’onda facile e colorita che celavano una sostanza tragica fiacchissima, un’azione contorta e senza scatto (tutta la tragedia è una lunga preparazione al suicidio di Aristodemo, preparazione e suicidio senza profonde ragioni e senza nodi drammatici, in una linea estenuante e monotona, malgrado le molte complicazioni artificiose), se furono ragione di successo fra i contemporanei, sono per noi la riprova di un sostanziale fallimento tragico e ci fanno considerare l’Aristodemo come un’opera apprezzabile soprattutto quale documento di gusto incerto ed eclettico in cui reperire aspirazioni diverse di un momento di crisi della letteratura tragica di fine Settecento, incapace di riconoscere nell’Alfieri il vero creatore di una nuova tragedia.

Un’opera in cui semmai, per il Monti, val meglio sottolineare una certa capacità, piú che di azione, di parlate, che paion preludere a intonazioni e impostazioni da melodramma romantico (e a volte da romanza e da novella romantica in versi). Certi duetti fra Aristodemo e Cesira (la seconda figlia perduta da bambina e ora tornata a Messene sotto le spoglie di una prigioniera spartana), l’addio di Cesira al padre morente, fan pensare (in una storia interessante delle offerte del Monti alla letteratura di primo Ottocento, della sua complessa funzione di passaggio fra Settecento e Ottocento) a forme di stile non piú settecentesche, a cadenze piú espansive ed apertamente sentimentali[63], con un linguaggio piú ricco anche psicologicamente.

Come molto meglio (ché nell’Aristodemo tutto è piú elegante e decoroso) si può osservare nella seconda tragedia, il Galeotto Manfredi, scritto nel 1788, dopo che il Monti aveva avvertito la debolezza dell’azione e dei personaggi della prima tragedia (che invano cercò di rafforzare nelle correzioni numerose ed incerte) e aveva denunciato la sua scontentezza in un lungo Parere, pure dell’88 (scontentezza mescolata alla soddisfazione quanto allo stile e ad una difesa piuttosto contraddittoria da alcuni giudizi altrui del resto di scarso interesse), in cui egli accentuava, con un fare violento (ma piú baldanzoso che profondamente sicuro), un preromantico contrasto fra cuore e intelletto, fra giudizio popolare (espresso col «consenso delle lagrime» da parte della «femminetta del parterre») e giudizio dei dotti ai quali opponeva enfaticamente: «Qual è il libro da cui meglio s’impara? Il cuore. Quali sono le circostanze in cui questo libro si apre e fa sentire la sua voce? Quando si soffre... Il cuore... è il mio Aristotele; il vostro lo leggerò quando avrò finito di scrivere»[64].

Egli avvertiva – seppure in modo confuso e approssimativo malgrado la sicurezza apparente – la possibilità di un teatro piú popolare e romantico e tentava di realizzarla direttamente appunto con la seconda tragedia, in cui il patetismo lacrimoso dell’Aristodemo (involto in forme generalmente piú eleganti e coerenti dovute anche al soggetto classico) veniva rafforzato in impostazioni di personaggi (se tali si possono chiamare, ché anche qui essi sono piuttosto voci di personaggi) piú appassionate e impetuose, in un’azione piú energica, semplice ed evidente, con un linguaggio piú vigoroso. Perciò scelse anche un soggetto «nazionale» (e se ne vantò nel motto oraziano di apertura: «vestigia graeca / ausus deserere, et celebrare domestica facta»), non classico, non greco: era la torbida vicenda, in una corte rinascimentale, Faenza, del complotto e dell’uccisione del signorotto, Galeotto Manfredi, ordinata dalla moglie Matilde per incerte ragioni. Tra queste il Monti scelse la gelosia e su quel motivo sentimentale, adatto ad un effetto teatrale popolare, impiantò la sua tragedia aggiungendovi un secondario motivo, la perfida ambizione del cortigiano Zambrino, contrapposto, con un giuoco di contrasto senza sfumature – anch’esso coerente ad un’impostazione teatrale che voleva essere energica, passionale e «popolare» –, al cortigiano buono, fedele e generoso, Ubaldo[65].

Sul tema della gelosia la tragedia ottiene anche una certa efficacia generale nei primi tre atti, piú coerenti all’iniziale impostazione semplice e impetuosa, mentre poi, dalla fine del terzo atto, la volontà di una soluzione piú complicata e macchinosa (e d’altra parte con la ricerca di procedimenti troppo sottili e superiori alle capacità montiane di scavo nel torbido mondo di affetti divisi e contrastanti, come nella ripresa goffa del tormento dell’alfieriana Clitennestra fra la coscienza e la soggezione alle sollecitazioni di Egisto) per condurre Matilde al delitto, entro una trama di incertezze, di resistenze e di abbandoni ai perfidi strattagemmi di Zambrino, porta l’opera a rilevare di nuovo la sostanziale debolezza tragica montiana.

Ma i primi tre atti, come dicevo, sono caratteristici per una certa efficacia già da teatro popolare romantico[66], di melodramma violento e facile, a forti e facili effetti[67], con la rinuncia a forme piú raffinate e aristocratiche, e soprattutto, nei duetti[68], nelle parlate, per una espressione di voci che sembrano accompagnate da un gestire, da una declamazione ormai diversa da quella piú tipicamente settecentesca. Parlata impostata con piglio energico ed aperto, forti irruzioni di voci che declamano una passione, nella trama semplice e poco elaborata dei duetti, e un linguaggio non privo di sciatterie nella sua ricerca di efficacia piú che di eleganza.

Era certo una via su cui il Monti – anche se certamente senza risultati tragico-poetici – veniva ad offrire un esempio di novità (e comunque vi guardarono il Niccolini ed altri scrittori di teatro dell’epoca romantica), equivoco nel suo fondo, ma interessante nella complessa storia del passaggio fra ultimo Settecento e Ottocento.

Il Monti però – dopo aver abbozzato la terza tragedia, il Caio Gracco, ripensata e scritta solo nel 1800 a Parigi – abbandonò i tentativi tragici, anche se dell’atteggiamento drammatico può esservi una certa traccia in alcuni componimenti che precedono un nuovo periodo dell’attività montiana, aperto dall’Epistola alla marchesa Malaspina, come i tre sonetti amorosi (forse per Costanza Braschi[69]) dell’88, che hanno una impostazione e un’intonazione chiaramente drammatica, sulla base di un sentimentalismo piú risoluto e violento e con soluzioni di contrasto che fan pensare a movimenti di sonetti foscoliani (con riflessi di quelli alfieriani), naturalmente su di un piano piú esterno e con quel cedere di impeti nel giro di uno stesso periodo che denuncia il carattere velleitario, ingannevole (promette molto, mantiene poco) di tanta produzione montiana. O come – in maniera tanto vistosa quanto intimamente debole – i celebri sonetti sulla morte di Giuda, pure dell’88, pezzo d’obbligo delle antologie scolastiche del secolo scorso e accettati stranamente anche da un critico, il Citanna, che è cosí severo con il Monti. Accettazione da non sottoscrivere, ché quei sonetti – interessanti per una ripresa del vecchio gusto del sonetto di tipo minzoniano seguito dal giovanissimo Monti in una maturità tanto maggiore di mezzi stilistici e con l’appoggio di una tendenza drammatica oratoriamente efficace – appaiono opera veramente retorica, di abilità, e la loro stessa efficacia è incrinata da vere e proprie zeppe (il v. 2 del sonetto II: «e si fé gran tremuoto in quel momento»), mentre quei quadri spettacolari mancano di ogni ispirazione religiosa, cosí come di ogni senso romantico del tormento e dell’esaltazione del reietto Giuda (come vorrebbe l’Allevi, nel suo volumetto montiano citato, parlando del mito byroniano del ribelle e dell’angelo caduto). E certi passi isolatamente piú suggestivi (ad esempio, sempre nel sonetto II, la visione degli angeli che, vedendo di Giuda «la salma in alto strangolata e nera», «partendo a volo taciturno e lento» per lo spavento e l’orrore «si fêr dell’ala agli occhi una visiera»), non sono piú che la prova di una capacità d’immagine che non trova un centro potente d’ispirazione e che avrà largo impiego soprattutto nella Bassvilliana, a cui simili versi fan pensare, ma che troverà in alcune sue pagine una ben diversa continuità in scene d’orrore e di commosso stupore piú schietti.


1 Solo piú tardi il Monti ebbe barlumi di rimpianto per la sua posizione di letterato al servizio sempre di qualche potente (come si può vedere in una lettera senile che citerò poi) e invidiò appunto l’Alfieri, perché, gran signore qual era, aveva potuto far a meno di protettori.

2 Ebbe poi dallo Spinelli un anello prezioso in ricompensa del sonetto e il Monti scriveva giubilando al Vannetti (Epistolario cit., I, p. 60): «Che bel mestiere che sarebbe quello del poeta, se i versi fossero tutti e da tutti cosí rimunerati!».

3 Per questo periodo romano del Monti utile è la lettura dei volumi di D. Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Roma, 1883, 1885 (ora Roma 1971); D. Angeli, Storia romana di trent’anni (1770-1800), Milano 1931; e i volumi di L. Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia (I, 1778-1780; II, 1781-1790; III, 1791-1793; IV, 1794-1799), Faenza-Fusignano-Roma 1879-1887.

4 Epistolario cit., I, p. 50.

5 Al fratello Cesare, 20 giugno 1779, Epistolario cit., I, p. 71.

6 II Monti fu declamatore eccezionale e una parte del suo successo fra i contemporanei è da attribuirsi alla speciale suggestione delle sue letture dei propri versi: versi, occorre aggiungere, già concepiti anche in vista di un loro sviluppo nella declamazione.

7 Epistolario cit., I, p. 59.

8 Epistolario cit., I, pp. 79-80.

9 Nel Foscolo del Commento c’è una scelta sicura e precisa, una posizione polemica coerente contro tendenze letterarie precedenti e contemporanee, una dichiarazione matura della sua poetica «del mirabile e del passionato», spina dorsale della complessa ricerca poetica successiva verso i Sepolcri e le Grazie. Il Monti non ebbe mai, e proprio all’opposto del suo vicino grande (al cui paragone è condotto dalla contemporaneità e da certe vicinanze parziali e deludenti), una sicura poetica, una forte consapevolezza del suo cammino poetico.

10 In Opere, a c. di G. Maggi, Milano 1842, VI, p. 461.

11 E naturalmente questo Discorso va considerato anche come interessante documento di preferenze e mode di quegli anni ricchi e confusi di velleità e di fermenti, fra preromanticismo e neoclassicismo.

12 Opere cit.,VI, p. 476.

13 Ibid., p. 456.

14 Ibid., p. 462.

15 E la stessa prosa del Discorso punta su di una varietà di intonazioni e di disposizioni, da quella solenne a quella patetica, a quella briosa.

16 «Il capriccio, la galanteria, l’amore (giacché il mal d’amore è la grande epidemia dei poeti) mi hanno fatto spesso dimenticare di David e di Isaia in grazia di Tibullo e di Anacreonte. Ma queste sono infedeltà che non costituiscono il mio carattere». Opere cit., VI, p. 463.

17 V. a p. 463 e, specialmente, pp. 465-466, dove c’è come un primo accenno di abbozzo della rappresentazione della creazione nella Bellezza dell’universo.

18 Il Monti cita e difende proprio alcune delle immagini “iperboliche” piú criticate e satireggiate, nel Klopstock, da critici italiani come il Bettinelli che pure era fautore di una poesia dell’entusiasmo “geniale” e non mancava di intuizioni di carattere preromantico.

19 Opere cit., VI, p. 479.

20 Ibid., p. 472.

21 V. la lettera del 20 maggio 1780 al Vannetti (Epistolario cit., I, p. 117).

22 La stessa prosa della dedica al Ferry è piacevole e caratteristica per il suo particolare brio spigliato e spregiudicato, specie nella gustosa vivace distinzione dell’amore all’italiana, appassionato, e quello alla francese, libertino e intellettualistico, che ha fatto pensare al Muscetta (in una nota dell’antologia montiana, ed. Ricciardi, 1953, p. 1011) ad una influenza di questo brano sullo Stendhal di De l’amour.

23 V., ad esempio, in A Fille questa sequenza scherzosa: «Vuoi che d’Egle e d’Amarille / il sembiante a me dispiaccia? / Che mi caschin le pupille / se piú mai le guardo in faccia. / Alla madre tua degg’io / finger vezzi e farle il vago? / Chiedi assai, bell’idol mio; / ma sarai contento e pago. / Vuoi ch’io parta allor che a lato / il rival ti troverò? / Il comando è dispietato; / ma fedel l’eseguirò».

24 V., ad esempio, nel Ritratto il lungo paragone della capigliatura della donna amata con il piacevole finale: il crine «scherza errante e lieve / su la fronte di neve; / come striscia leggera / di vapore, che a sera / va serpeggiando, e splende / davanti al sol cadente / o su la faccia pende / della luna sorgente».

25 V., ad esempio, la parlata di Giove (Tragedie, drammi e cantate, a cura del Carducci, Firenze 1865, pp. 18-19) florida e immaginosa, anche nell’arietta finale caricata di colori e di rapidi sfondi celesti: «Oggi non voglio respirar / che allegrezza...».

26 «Io de’ forti Cecropidi / nell’inclita famiglia / d’Atene un dí non ultimo / splendore e maraviglia, / a riveder io Pericle / ritorno il ciel latino, / trionfator de’ barbari, / del tempo e del destino». Spie della costruzione eloquente e declamatoria sono anche i numerosi «dunque» e «vedi» e le numerose ripetizioni agli inizi delle strofe.

27 La poesia fu recitata il 20 agosto 1779 ed ebbe uno strepitoso successo (un cardinale propose di farla incidere in caratteri dorati sull’erma di Pericle in Vaticano), cosí strepitoso che lo stesso Monti ne rimase un po’ sorpreso (v. la lettera al Vannetti del 24 agosto): era una ode-canzonetta composta, egli dice, in due giorni, in occasione della festa del papa (ed egli la chiama sempre la «canzonetta per il papa»). Il successo fu dovuto a ragioni di gusto, ma anche a ragioni pratiche: quella poesia interpretava certe velleità di Pio VI, nel suo ardore di rinnovamento del secolo di Leone X, di un nuovo rinascimento classico sotto il mecenatismo papale. Velleità in parte realizzate: il Museo Pio-Clementino; in parte – come il prosciugamento delle paludi Pontine – bloccate dalla mancanza di mezzi, dalle condizioni deplorevoli di arretratezza economica e sociale dello Stato pontificio (ben chiare ad un Alfieri o a un Goethe, ma non al Monti, privo della salutare cultura illuministica e chiuso, allora, ad ogni problema non letterario).

28 Naturalmente non esiste un archetipo neoclassico, un gusto neoclassico in assoluto; esistono, intorno a generali principî di un gusto e di una poetica, particolari e personali poetiche e soluzioni artistiche. Ma il Monti appare particolarmente lontano, ai suoi inizi, dalla linea media e centrale del gusto neoclassico, ispirato soprattutto a note formule winckelmanniane.

29 La prima redazione è piena di forme piú direttamente frugoniane e arcadiche, in direzione languida e facile, oltreché di vere e proprie sciatterie. In genere la revisione asseconda la intonazione piú eletta, classicheggiante, solenne (a «biondo Tevere» si sostituisce «sacro Tevere», «la campagna tiburtina» diviene «in grembo al suol di Catilo», «spirto profano e lurido» si cambia in «spirto profan, dell’Erebo» ecc.), e tende a rafforzare la costruzione energica e rapida, eliminando le sbavature piú languide e scialbe per un impasto cromatico piú splendente e smaltato.

30 Epistolario cit., I, pp. 92-93.

31 V. lettera del 26 gennaio ’79, Epistolario cit., I, p. 61.

32 V. lettera del 25 dicembre ’79, Epistolario cit., I, pp. 100-101.

33 V. lettera dell’8 luglio ’78, Epistolario cit., I, p. 51.

34 Epistolario cit., I, p. 121.

35 Questa polemica di lettere e scritti particolari (Riflessioni sulla poesia lirica del Monti, Postille del Vannetti, Riflessioni in risposta alle Postille del Monti ecc., riprodotte nel saggio di F. Pasini, Un discorso di Vincenzo Monti in Arcadia, Trento 1910) ha un notevole interesse per la storia del gusto di fine Settecento e meriterebbe una precisa ricostruzione. (Per la posizione del Vannetti, v. il mio saggio Lo sviluppo del neoclassicismo nelle discussioni sul «gusto presente», in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1953, ora in Classicismo e neoclassicismo, Firenze 1963, 19763).

36 29 dicembre 1781, in Epistolario cit., I, pp. 166-167.

37 La “fonte” fu individuata da A. Scrocca (in «Giornale storico letterario della Liguria», 1903): l’orazione dello Zanotti si può leggere in Opere scelte di F.M. Zanotti, Milano 1821, p. 408 ss. – Il Monti vi riprese lo stesso suo titolo e le precise suddivisioni del Canto nella parte della creazione. Naturalmente moltissimi poi sono gli echi da altri poeti nei singoli passi (Bibbia, specie Genesi, Milton, Klopstock, Varano, Dante, Ariosto, Tasso – e per alcune parti morali-filosofiche il Saggio sull’uomo, poema di Pope). Il tema della bellezza e armonia dell’universo è poi diffusissimo nell’ultimo Settecento platonizzante e neoclassico. Può esser significativo il fatto che il Monti abbia piú sentito quel tema nella direzione della “bellezza”, di un entusiasmo per la varietà, abbondanza, colorita floridezza delle forme vitali della grandiosa spettacolarità dell’universo che non nella direzione piú sottile dell’armonia segreta della vita e della bellezza a cui piú tendono i neoclassici piú ortodossi.

38 La Bellezza dell’universo fruttò al Monti il posto di segretario del giovane principe. E cosí ebbero termine per molto tempo le preoccupazioni pratiche del letterato in cerca di padroni, soddisfattissimo di poter dire al fratello di indirizzargli d’allora in poi la posta all’«abate Vincenzo Monti, segretario del principe Braschi nipote di Nostro Signore».

39 Un deciso miglioramento nell’edizione dell’83 si ha al v. 43 che era «trascorrendo del ciel gli aperti campi» e divenne «del ciel volando pei deserti campi». Per il resto non c’è occasione, nelle rare correzioni, per rilievi di qualsiasi interesse: sono correzioni minute, di poco conto.

40 Cosí di peso son ripresi versi dell’Ariosto (come il v. 171 dal Furioso, III, 1, 4, e il v. 264 dal Furioso, XXXIII, 2, 8).

41 Si guardi, ad esempio, nell’episodio della creazione della fauna marina, la ripresa dall’Ariosto (nel VI, p. 36 ss. del Furioso). Ma tutto è veramente espanso e amplificato (oltreché troppo esplicito è il gusto della bravura prestigiosa rispetto al sorriso poetico ariostesco intrinseco a quel movimento vitale, gioioso e serenamente grottesco) in forme piú spettacolari, vistose, accentuate nelle misure dell’immagine e nell’opulenza del suo svolgersi: «e mezzo il mar copriro / col vastissimo ventre orche e balene».

42 Si pensi a certe potenti espressioni foscoliane sulla miseria e grandezza dell’uomo e si avvertirà come nel Monti certi temi grandi della spiritualità neoclassico-romantica sono privati di una sofferenza personale, di una personale meditazione intellettuale-lirica.

43 E si noti come la Bellezza, con i diversi temi in cui si articola, offrisse al Monti la possibilità di mostrare la sua eccezionale capacità di trattare in maniera piú splendente ed evidente gli argomenti piú diversi e molti “generi” della poesia del tempo: la poesia scientifica, la poesia dell’idillio naturale e preromantico, la poesia “sublime”, la poesia morale e spiritualistica (l’uomo e le sue qualità). Epitome brillante di tanti aspetti del gusto del tempo, privati delle loro ragioni piú profonde, amalgamati nella smagliante immaginosità montiana, nel suo entusiasmo poetico-retorico.

44 Accanto ai numerosi suicidi wertheriani si possono ricordare quelle strane cerimonie – veri e propri giuochi di società – in cui signore e giovani cavalieri vestiti alla Werther si recavano nei cimiteri a leggere e rappresentare i brani piú lacrimosi del romanzo. E il Vannetti sdegnosamente notava che le dame in quegli anni si incipriavano abbondantemente e dimagrivano per assumere un aspetto sofferente e scolorito.

45 Con aspetti singolarmente curiosi, come quando nella sua passione il Monti tira in ballo l’opportunità di non dispiacere al suo “padrone” o pensa di confidarsi addirittura col papa perché lo aiuti a farsi uno stato economico piú sicuro e necessario per la sua sistemazione matrimoniale.

46 Epistolario cit., I, p. 217 (lettera cui appartengono anche gli altri brani citati).

47 In seguito il Monti non fece piú alcun accenno a quella vicenda che evidentemente non aveva lasciato tracce profonde nel suo animo.

48 L’uso abbondante dei puntini sospensivi a indicare la piena soverchiante dei sentimenti, il periodare fratto e un po’ a singhiozzo, l’abbondanza delle invocazioni e delle esclamazioni, l’aggettivazione graduata fra il tenero fino al languido e il malinconico fino all’orrore, sono in parte caratteri che si ritroveranno anche nell’Ortis, specie nella sua prima redazione.

49 Il Chigi, amico e protettore del Monti, fa qui la parte dell’amico cui Werther indirizzò le sue lettere, ed è presentato dal poeta come «consolator, che non torcesti mai / dalle pene d’altrui lungi lo sguardo».

50 Cosí nei versi 55-94 la ripresa di un celebre passo goethiano (nella lettera del 10 maggio), dopo aver dato vita ad un efficacissimo quadro idillico-elegiaco di contemplazione della natura (vv. 55-66), di rapimento estatico che nel Werther ha un chiaro fondo di religiosità panteistica, diluisce il breve accenno del Werther alla osservazione del piccolo mondo degli insetti che si muove fra le erbe su cui il giovane innamorato è disteso, in una lunghissima minuta descrizione dei vari animaletti, delle loro varie occupazioni (vv. 74-94): descrizione che finisce per allontanarsi del tutto dal motivo che la giustificava, per costituire un puro pezzo di bravura complicato da poco opportuni paragoni fra la vita degli uomini e quella degli insetti.

51 Per confronti precisi e per un commento di tutto il componimento rimando alla mia antologia dell’Ottocento (Sapegno, Trombatore, Binni, Scrittori d’Italia, Firenze 1946, III) nella quale si trovano commenti anche della Bellezza dell’universo, dell’Ode al signore di Montgolfier, dell’ode Per la liberazione dell’Italia, della poesia Per l’onomastico di Teresa Pikler, di passi della Feroniade.

52 Alta è la notte, ed in profonda calma / dorme il mondo sepolto, e in un con esso / par la procella del mio cor sopita. / Io balzo fuori delle piume, e guardo; / e traverso alle nubi, che del vento / squarcia e sospinge l’iracondo soffio, / veggo del ciel per gl’interrotti campi / qua e là deserte scintillar le stelle. / Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, / e verrà tempo che da voi l’Eterno / ritiri il guardo e tanti soli estingua? / E tu pur anche coll’infranto carro / rovesciato cadrai, tardo Boote, / tu degli artici lumi il piú gentile? / Deh, perché mai la fronte or mi discopri, / e la beata notte mi rimembri / che al casto fianco dell’amica assiso / a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito! / Al chiaror di tue rote ella ridenti / volgea le luci; ed io per gioia intanto / a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato, / piú vago oggetto a contemplar rivolto, / che d’un tenero cor meglio i sospiri, / meglio i trasporti meritar sapea. / Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, / dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? / E questa è calma di pensier? son questi / gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse / della notte il silenzio, e della muta / mesta natura il tenebroso aspetto! / Già di nuovo a suonar l’aura comincia / de’ miei sospiri, ed in piú larga vena / già mi ritorna su le ciglia il pianto».

53 Poesie liriche cit., pp. 315-318.

54 Poesie liriche cit., pp. 328-330.

55 Poesie liriche cit., pp. 287-292.

56 Edizione Maggini, Firenze 1955, p. 86.

57 Poesie, edizione Bellorini, Bari 1929, II, p. 268.

58 «E al tracio suon chetavasi / de’ venti il fischio e l’ira. / Meravigliando accorsero / di Doride le figlie, / Nettuno ai verdi alipedi / lasciò cader le briglie».

59 Anche nel linguaggio (e il linguaggio montiano offre spesso risultati che potevano ben colpire e interessare i romantici) si noti questo riuscito impasto di forme letterarie e di forme quasi prosastiche: persino le «mille bocche aperte» qui non stonano, coerenti come sono a questo tono di mito moderno animato dallo stupore che accomuna gli spettatori moderni e le creature mitiche meravigliate al passaggio della nave Argo.

60 Epistolario cit., I, p. 100.

61 Indubbia è l’ammirazione del Monti per l’Alfieri e il sonetto violento con cui egli nell’83 rispose al sonetto alfieriano contro lo stato papale è solo il gesto del poeta ufficiale della corte romana (anche se con quell’eccesso di zelo, di cui poi, come in tante altre occasioni simili, il Monti doveva pentirsi). Piú grave semmai fu il giudizio che nel 1810 il Monti dava dell’Alfieri («val piú un’arietta del Metastasio che tutte le tragedie dell’Alfieri») e che il Foscolo acerbamente criticò come servile adesione alla moda cortigiana napoleonica antialfieriana per motivi politici.

62 Eppure non va dimenticato, in questo come in altri casi, come il Monti con i suoi compromessi rendesse accettabili ai contemporanei a volte anche idee nuove e motivi nuovi di gusto, esercitando cosí una sua cauta, ma efficace funzione di mediatore in strati piú lenti e resistenti di un pubblico che si arretrava spaventato di fronte alle forme piú decise e rivoluzionarie.

63 Il sentimentalismo è certo prevalente nell’Aristodemo e ad esso corrisponde una languida enfasi struggente (vedasi, ad esempio, il discorso-romanza con cui Aristodemo ricorda il momento in cui affida ad altri la figlioletta poi perduta: «Tre volte io stetti / per consegnarla, ed altrettante al petto / me la ripresi e la coprii di baci, / ultimi baci; e piansemi in segreto / il cor, presago della rea sventura», III, sc. III).

64 Tragedie, drammi e cantate, a cura del Carducci cit. p. 208.

65 In una lettera al Cerretti del gennaio 1788 (Epistolario cit., I, p. 314), il Monti insisteva (oltreché sull’audacia di avere scelto un soggetto nazionale) sulla sua volontà di reagire alla monotonia dei personaggi dell’Aristodemo con personaggi piú distinti fra loro. Quanto a Zambrino ed Ubaldo il Monti volle anche (e lo disse piú volte) dipingervi il contrasto fra se stesso, cortigiano fedele, e i nemici che gli insidiavano il posto presso i Braschi. Cosí nella tragedia vi è anche il riflesso delle sue irose e misere polemiche di quegli anni, culminate in un attacco di molti piccoli letterati (motivato dalle dicerie su di una sua relazione con Costanza Braschi e da un suo sonetto per il parto di questa) e nella furibonda replica del Monti con il sonetto caudato A Quirino, assai volgare e troppo piaciuto al Carducci. Solo piú tardi, nella Proposta, l’istinto polemico del Monti troverà una sua vera forza brillante e comica.

66 Non si pensi però – in relazione al soggetto storico-nazionale – che il Monti operi una caratterizzazione di colore storico in senso romantico. La caratterizzazione storica non vi è neppure iniziata, non va al di là del titolo e dell’argomento.

67 Effetti cercati anche spettacolarmente in tutta la tragedia: il delitto nel finale si compie mentre infuria una tempesta, nel fragore dei tuoni e della pioggia.

68 Come esempio di questi duetti a piena voce e con impostazione di enfasi aperta e quasi da dramma e melodramma romantico, si veda quello (sul motivo politico) di Zambrino e Ubaldo (Atto I, sc. II) e quello, sul motivo dominante della gelosia, fra Manfredi e Matilde, quando questa ha sorpreso il marito in colloquio con la rivale ed esplode con impeto melodrammatico: «Non seguir, spergiuro; / ché t’ascolta la moglie. / Il guardo a terra, / anime ree non abbassate; in fronte / alzatelo a Matilde, e su la guancia / dissipate il pallor che vi coperse...» (Atto II, sc. IV).

69 Specie il primo di cui notevoli, per quanto si dice sotto, le terzine: «Né sdegno vale né ragion, che morta / piú non risponde, né cangiar d’obbietto, / né soccorso di pianto e di sospiro. / Dunque a snidarti, Amor, da questo petto / che mi riman? Nol so: ma mi conforta / che immortale non sono, e che deliro».